In Italia è già stata ideata un’applicazione – si chiama “Immuni” – da installare su telefoni mobili, scelta per il tracciamento dei cittadini a supporto delle politiche di contenimento dell’epidemia. Al tempo stesso i colossi tecnologici della Silicon Valley, Apple e Google, hanno annunciato una collaborazione per tracciare la diffusione del Covid-19 usando la tecnologia degli smartphone.
Ascolta l’intervista a Massimo Mantellini
Massimo Mantellini, lei è esperto di cultura digitale e politica delle reti. Crede che in futuro saremo persone meno libere?
«Questo è uno dei temi principali che riguarda il nostro futuro tecnologico e che non nasce certamente con la questione del Coronavirus. Per quanto riguarda fondamentalmente la decisione di Google e Apple, la giudicherei tutto sommato positivamente, in un contesto che è comunque pericoloso. Infatti hanno semplicemente proposto di utilizzare il ponte che le loro librerie software consentono per fornire i dati necessari alle ricerche. Per una volta queste aziende non si occupano direttamente dei nostri dati e quindi non li sfruttano economicamente, ma fanno semplicemente da ponte per le società in generale, in questo caso i governi e gli istituti sanitari di tutti i Paesi del mondo, per raccogliere nella maniera migliore la maggior quantità di dati. La questione ovviamente rimane viva, specialmente per le società come Google che vivono dei nostri dati, quindi dentro un sistema economico non del tutto trasparente. Ma in questo caso specifico è più un servizio che uno sfruttamento».
Da settimane viviamo reclusi nelle nostre abitazioni e si registra un’impennata dell’utilizzo di tutti gli strumenti che si basano sulla Rete. Internet sarà la nostra casa del futuro?
«Internet era già la nostra casa del futuro, anche per tutti coloro i quali cercavano di rifiutarne l’idea. Se osserviamo quello che ci succede, gran parte delle nostre attività culturali, economiche e formative passavano già attraverso gli strumenti digitali. In questa situazione si è semplicemente reso più chiaro un contesto che era già in qualche maniera imposto a ciascuno di noi. È ovvio che questo ha dei limiti e delle possibilità. In un momento di difficoltà come questo probabilmente ci paiono più chiare le possibilità, perché i limiti sono imposti da qualcun altro. Nella sostanza credo che si tratti della sottolineatura di una serie di modificazioni sociali che erano già in corso».
Nel suo libro Bassa risoluzione l’ha definita «la fine del lettore e della verità», mettendo in evidenza la diffusione un nuovo analfabetismo e una tendenza da parte dei lettori a non occuparsi delle cose complesse. Questo fenomeno è enfatizzato ancora di più con l’emergenza Covid-19?
«Credo di sì. Credo che la tecnologia oggi ci consenta di spostare il valore in un punto che a noi non pare esistere ma che comunque c’è. Nel caso dell’informazione forse si asssite a un’eccezione rispetto a questa norma. C’è stata un’evidente perdita di valore, una forma di risoluzione che è andata diminuendo perché la qualità informativa si è ridotta. Però a essa non ha corrisposto una ricomparsa del valore altrove. Questo credo che oggi sia ancora più evidente: abbiamo questa tendenza a sottovalutare il valore e la qualità dell’informazione e questo fa di noi sostanzialmente delle persone più povere».
In questo momento di iper-connessione, che ruolo stanno svolgendo i giornali tradizionali? L’utilizzo frequente dei social può mandare una volta per tutte in cantina i media tradizionali?
«Il ruolo è fondamentale. Ce lo dice il fatto che tutti i siti di news hanno duplicato se non triplicato la quantità dei contatti. Questo perché ovviamente c’è una grande fame informativa, che forse in altri periodi non era così evidente, anzi, molto probabilmente, non c’era proprio. Quindi abbiamo bisogno di molte informazioni e avremmo bisogno di molte informazioni di qualità. Purtroppo non si è alzata la qualità complessiva dell’informazione, per cui è capitato molto spesso che essa, specialmente in Italia, sia stata molto ondivaga. In un primo periodo ha sottolineato prevalentemente gli aspetti drammatici, poi ha cercato di tranquillizzare invertendo completamente il significato delle informazioni che vengono date; successivamente ha cercato di essere equilibrata, avvertendo chec’è un ruolo fondamentale dei media in questo momento rispetto all’opinione pubblica e alla sua necessità di essere informata in maniera corretta. È risultato chiaro quello che forse era chiaro anche prima, cioè che i media hanno un ruolo e questo ruolo può essere potentissimo ma può esserlo in positivo come in negativo. A maggior ragione, in un momento di grave difficolta, incertezza e paure diffusissime, i media hanno un ruolo importante;molto più dei social network, dove invece si declinano in maniera più chiara la sensazione, lo stato d’animo, il sentimento delle persone. I media professionali dovrebbero essere un’altra cosa, il luogo dal quale si cerca di diffondere le cose che sono veramente importanti, e questo non succede sempre».
Purtroppo anche attraverso alcune testate giornalistiche abbiamo visto in questi giorni la diffusione di non poche bufale. Di cosa abbiamo bisogno per il futuro?
«Noi abbiamo bisogno di un’informazione di qualità, sicuramente a pagamento: non ci si può infatti immaginare che questa cosa si sostenga da sola o con modelli economici pubblicitari che sono in rete adesso e sono davvero fallimentari. Prima ancora di questo abbiamo bisogno di una sorta di identità culturale e di persone che ne comprendono il valore. Perché è ovvio che questa consapevolezza non si acquista se non ne se comprende il valore . Dentro questa specie di ingorgo quello che sta succedendo – ed è abbastanza paradossale – è che i media assomigliano sempre di più, come qualità, quantità informativa ma anche come modalità di esposizione dei contenuti, ai social network e questo è l’esatto contrario di quello di cui avremmo bisogno. Quando si discute di bufale e fake news, è molto complicato distinguere l’informazione presunta autorevole da quella chiaramente legata ai punti di vista del pubblico. Questo è un grosso problema. Tutte le volte che diciamo che l’informazione è il presidio della democrazia, lo diciamo perché in quel luogo ci deve essere un’elaborazione culturale che oggi, per molte complicate ragioni, spesso non c’è. Abbiamo bisogno di media autorevoli e di andare a leggerli per farci dire quello che sta succedendo».
21 aprile 2020

Paolo Tomassone
Giornalista