5 MINUTI CON… Stefania Tomasini – Per l’Europa il rischio di un colpo definitivo

L’Italia aveva smesso di crescere già nel 2018 ma qualche segnale di ripresa nel 2020 si cominciava a intravedere. Poi la crisi sanitaria ha infranto queste aspettative. Gli stati europei – compreso quello italiano – hanno adottato, con carattere d’urgenza, provvedimenti per evitare il fallimento delle imprese. Ne abbiamo parlato con Stefania Tomasini, partner e responsabile di modelli economia italiana di Prometeia, che sull’ultimo numero di Regno Attualità ha firmato il dossier «Economia: una risposta comune. Il sistema economico davanti alla pandemia».

Professoressa Tomasini, sono sufficienti questi interventi? Quali previsioni avete fatto per i prossimi mesi?

«Stiamo vivendo una situazione veramente molto difficile. Quello che fino a tre mesi fa ci sembrava un profilo di crescita piuttosto deludente – le nostre previsioni indicavano una crescita del PIL dell’Italia dello 0,6% per il 2020 – adesso ci sembrerebbe un sogno. Questi mesi di chiusura forzata dell’attività economica e anche il modo in cui, trascorsi questi mesi, si ritornerà comunque verso una qualche forma di normalità, lasceranno dei segni molto profondi sull’economia italiana e mondiale. Le nostre previsioni, che non sono tra l’altro delle più pessimiste, sono orientate a dare un’indicazione di caduta dell’attività globale dell’1,6%: una circostanza che non si era verificata nemmeno durante la crisi del 2008-2009. Si può dire che è la peggiore crisi che l’economia mondiale abbia registrato in tempi di pace. Per l’economia italiana prevediamo un -6,5%».

 

Molte imprese sono pronte a ripartire, ma nessuno, neanche i più ottimisti, crede che tutto potrà tornare come prima. Questa chiusura prolungata dell’attività economica avrà effetti anche sulle dimensioni già ridotte delle imprese italiane?

«Sicuramente quello che stiamo vivendo avrà delle conseguenze. Le politiche economiche dovrebbero evitare che questo shock, che potrebbe essere temporaneo, lasci segni permanenti sulla capacità produttiva dei Paesi e dell’Italia in modo particolare. Invece, purtroppo, potrebbero esserci, soprattutto per le imprese più piccole e più fragili. Questo shock sta manifestando delle caratteristiche di asimmetria molto accentuate: il modo in cui si cerca di realizzare il distanziamento sociale, la chiusura delle attività non essenziali, sta colpendo in modo particolare alcune filiere, per esempio quella del turismo e dell’intrattenimento, e tutto quello che è legato alla socialità delle persone. Questo fa sì che alcuni settori siano molto colpiti, settori nei quali c’è una larga prevalenza di imprese piccole o anche piccolissime. Da questo punto di vista c’è il rischio che, se la crisi dovesse protrarsi troppo a lungo o comunque non ci fossero adeguati strumenti di sostegno al reddito di queste categorie di lavoratori e di piccoli imprenditori, all’uscita dalla fase di controllo sanitario interi settori si trovino o fuori mercato o con grandi problemi di liquidità. In questo senso gli interventi che ha fatto recentemente il governo – il cosiddetto Decreto liquidità – sono molto importanti. È chiaro che bisognerà pensare alla fase 2, alla ripartenza, ma ormai credo che sia chiaro per tutti che il virus non scomparirà nemmeno all’inizio di maggio, e che dovremo imparare a conviverci. Per far sì che non vi sia un riaccendersi dell’epidemia la riapertura dovrà avvenire con gradualità e con tutta una serie di accorgimenti che anche le imprese dovranno adottare. Quindi sarà necessario un grande sforzo di riorganizzazione, con l’adozione di strumenti per la messa in sicurezza dei lavoratori».

 

Quale ruolo dovrebbero giocare in questo momento le istituzioni europee?

«Come ho detto, si sta delineando una situazione in cui per tutti i Paesi ci sarà una fortissima caduta del PIL. Ci sarà quindi bisogno di forti interventi a supporto dell’economia, oltre a quelli necessari per combattere la pandemia. Tutto questo lascerà in eredità danni economici e indebitamenti più alti. Di fronte a questa situazione, comune per tutti i Paesi, da più parti si richiama l’importanza di un intervento coordinato in sede europea proprio perché si tratta di costi che non derivano da comportamenti sbagliati dei singoli Stati, ma appunto dell’effetto di un fatto totalmente esogeno e non controllabile. Se non si vedrà all’opera un’Europa unita e solidale, capace di superare le barriere nazionali, gli egoismi e le differenze, credo che si lascerà in eredità un’Europa colpita per sempre nei suoi ideali di partenza. Negli ultimi anni ha già subito molti colpi, questo potrebbe essere il colpo definitivo.

Al contrario, la condivisione di questi costi potrebbe rendere più forte l’Europa perché renderebbe i Paesi che usciranno più fragili da questa vicenda – come l’Italia ma non solo –, meno attaccabili e dunque più resilienti e capaci di tornare a contribuire alla crescita dell’interno continente».

 

Come giudica il dibattito politico – su cui è già intervenuto Romano Prodi – sul Fondo salva Stati?

«Dal punto di vista politico non ho le competenze per intervenire. Quello che posso dire è che dal punto di vista economico non mi sono chiari i motivi per cui non dovremmo accettare di fruire di questi fondi che, tra l’altro, verrebbero messi a disposizione senza condizionalità, con tassi di interesse molto bassi, verosimilmente con una scadenza di rimborso molto lontana. Non sarebbero risolutivi, però potrebbero essere un aiuto a un costo veramente molto contenuto».

Paolo Tomassone

Giornalista

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