La questione della libertà religiosa al tempo della pandemia assume una dimensione particolare negli Stati Uniti: non solo a causa di un paesaggio religioso molto plurale e polarizzato anche all’interno di una stessa tradizione religiosa, ma alla luce della crisi politica e costituzionale del paese, da cui le Chiese e il cattolicesimo non sono esenti.
Le diverse recezioni da parte di gruppi religiosi delle ordinanze e dei decreti che vietano le cerimonie con la partecipazione di gruppi di persone offre un panorama interessante e diverso rispetto all’Europa. In molti stati i governatori hanno concesso a Chiese e gruppi religiosi esenzioni dal divieto di riunirsi, dando vita a una mappa molto più diversificata rispetto ad altri stati, come in Europa ma anche in Canada.
Queste esenzioni non hanno evitato incidenti: pastori di megachurch evangelicali hanno sfidato pubblicamente i divieti – uno degli effetti del «Vangelo della prosperità», secondo il quale alcuni sarebbero protetti dalla pandemia per decreto divino –.
Ma c’è anche la pressione del mercato delle religioni: la chiusura avrà un impatto finanziario grave (e in molti casi fatale) su Chiese e denominazioni che possono sopravvivere solo grazie a un flusso costante di denaro proveniente da donazioni private (in mancanza di sovvenzioni da parte delle istituzioni pubbliche, che sono incostituzionali negli USA).
È un discorso che riguarda anche diocesi e parrocchie cattoliche. Sarebbe infatti sbagliato vedere nella tendenza al rigetto delle temporanee limitazioni alla libertà religiosa un problema solo per le confessioni cristiane evangelicali o gruppi religiosi settari con scarso o nessun apprezzamento per la natura secolare delle istituzioni pubbliche. Non si tratta soltanto di una questione finanziaria. In assenza di una direttiva nazionale da parte delle autorità pubbliche ed ecclesiastiche, i vescovi hanno recepito le ordinanze dei governatori. Ma ambienti del cattolicesimo militante hanno presentato petizioni alle autorità ecclesiastiche (tra le tante, We are an Easter People) per chiedere l’accesso ai sacramenti; i media cattolici di tendenza conservatrice e neo-tradizionalista, specialmente il conglomerato multi-mediatico con un vasto pubblico nazionale come EWTN e riviste intellettuali come First Things, hanno fatto pressione sui vescovi.
Ciò è avvenuto anche a causa della evangelicalizzazione del cattolicesimo negli Stati Uniti e delle conseguenze che questa svolta comporta per la comprensione del rapporto tra Chiesa e stato – una ulteriore delegittimazione dello stato laico pluralista –. La richiesta che le autorità civili riconoscano i servizi religiosi come servizi essenziali non è un argomento primariamente teologico-sacramentale, ma riflette una visione libertaria dell’esercizio della religione.
Una concezione libertaria
Questa reazione di gruppi cattolici statunitensi non è una sorpresa. Se si guarda all’ultimo decennio d’attività della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (USCCB), è evidente che l’iniziativa che ha caratterizzato la più importante mobilitazione pubblica dei vescovi è stata la questione della libertà religiosa, con la creazione delle Fortnight for Freedom iniziate nel luglio 2012, inizialmente motivate con le sfide alla libertà religiosa portate dalla riforma sanitaria dell’amministrazione Obama.
Già allora emergeva un concetto di libertà religiosa più come «libertas Ecclesiae» medievale che come libertà religiosa secondo l’insegnamento conciliare di Dignitatis humanae (cf. «La salute dell’America», in Regno-att., 8,2010,221s). È una mentalità in contrasto con la tradizione magisteriale cattolica nel postconcilio, ma in linea con altre culture d’imprenditoria religiosa negli Stati Uniti.
La pandemia da COVID-19 rappresenta quindi un test per le relazioni tra stato, religioni e Chiese in tutti i paesi del mondo; ma negli Stati Uniti assume un rilievo particolare, e non solo per un’accezione privatistica delle attività delle Chiese, ma anche per il momento particolare nella storia del paese che vede un crollo della fiducia nelle autorità e istituzioni sia politiche sia religiose.
In questa situazione, l’interpretazione del ruolo della Chiesa negli Stati Uniti dato dai vescovi ha segnato un’altra tappa nella storia dell’alienazione tra leadership clericale e il bene comune di cui le istituzioni pubbliche sono primariamente responsabili, e nella crisi di legittimità della Chiesa gerarchica agli occhi di molta parte dei cattolici.
C’entra l’allineamento di alcuni vescovi alla Casa Bianca di Trump: la pandemia ha di fatto sospeso la campagna elettorale dei democratici e mette a rischio il normale svolgimento delle elezioni presidenziali di novembre, ma non ha interrotto il tentativo del presidente di assicurarsi il sostegno delle gerarchie cattoliche: con particolare successo presso il cardinale di New York, Timothy Dolan che sta oscurando il presidente della USCCB, l’arcivescovo Gomez di Los Angeles (cf. Chris White, «Cardinal Dolan defends himself after letter criticizing him for Trump call», in Crux, 1.5.2020).
Nelle stesse settimane, il presidente Trump si era contraddistinto per appelli alla riapertura delle chiese proprio mentre accusava (senza fondamento) le comunità musulmane di godere di privilegi negati ai cristiani. Ma le minoranze religiose negli USA hanno rispettato le ordinanze in maniera non meno, ma più scrupolosa di alcune chiese e sinagoghe.
Dopo la nuova fase dello scandalo delle violenze sessuali iniziata nel 2018, la pandemia rappresenta per il conservatorismo cattolico negli USA un’altra opportunità per collassare tutto nel buco nero delle culture wars.

Massimo Faggioli
Storico e teologo