Quello del card. Becciu (vedi qui su Re-blog la cronaca essenziale di queste ore) è un pasticcio. Un pasticcio grave, causato da atteggiamenti che potremmo definire superficiali e familistici. Esso ci racconta come vi sia un serio e perdurante problema nel governo della Chiesa. Non conosciamo appieno tutte le operazioni incriminate compiute dal cardinale, il quale era già ai vertici della Chiesa fin dal pontificato precedente. Ma il tema va posto a un livello più ampio e generale. Oltre il singolo caso. Il tema attiene alla crisi nel governo della Chiesa, il che riguarda una parte significativa dell’esercizio della sua autorità. Il problema non parte dal pontificato di papa Francesco. Potremmo dire che si è manifestato in tutta la sua profondità dopo il pontificato di Paolo VI. Già con Giovanni Paolo II e poi con Benedetto XVI il tema ha riguardato, nelle nomine episcopali e del personale di curia, il rapporto tra dimensione ecclesiale e dimensione ecclesiastica. Il processo di formazione e di scelta della «classe dirigente» della Chiesa non sempre ha corrisposto a una dimensione di equilibrio tra le due componenti. Mandare nunzio, ad esempio, una persona che non ha avuto un minimo di esperienza ecclesiale, ne fa facilmente un candidato non all’altezza del proprio compito. Analogamente, la sola esperienza di vita comunitaria, senza un’adeguata e sperimentata formazione istituzionale, può generare figure che, seppur mosse dalle migliori intenzioni, alla prova dei fatti falliscono la loro responsabilità rispetto alle esigenze di governo della Chiesa.
Con le dimissioni di Benedetto XVI il problema era esploso nel cuore stesso del pontificato, al centro della Chiesa: una crisi di autorità, come scrivemmo allora, che aveva certo bisogno di una risposta riformatrice in senso persino radicale, ma nella ricerca di un nuovo equilibrio anche istituzionale. L’azione di papa Francesco, così determinata e positiva, non è riuscita sin qui a trovare quel nuovo equilibrio. Papa Francesco si è trovato a disporre di un personale ecclesiastico che in alcuni casi (al netto dei pochi casi gravissimi che rispondono a un vissuto patologico) si è dimostrato variamente inadeguato. Papa Francesco ha svolto e sta svolgendo un’importante azione di trasparenza e pulizia nella Chiesa. Ma anche quest’azione così necessaria va condotta con la necessaria misura. Alcune delle scelte dello stesso pontefice sono apparse in merito improntate a un giudizio talora impressionistico. E la sua stessa reazione di delusione si è poi manifestata durissima. Il problema rimane: non si può chiudere la Chiesa, per un supposto principio difensivo, nel recinto di scelte che rispondono a profili di tipo puramente ecclesiastico (o clericale), perché l’ecclesialità è essa stessa una dimensione fondamentale dell’istituzione ecclesiastica, oltre che della comunione della Chiesa, ma non si può neppure ignorare l’esigenza di una comprovata e sperimentata competenza istituzionale. Chi non possiede le due dimensioni può solo fare danni più o meno gravi, a seconda del potere che esercita.
Vi è infine la questione metodologica che decisioni forti, magari necessarie, possano o non possano essere espresse sotto la pressione dei media o di qualunque altro soggetto, istituzionale e non. Questo innesca un meccanismo di rincorsa che nuoce all’autorevolezza della decisione. Istituzione e profezia debbono cercare sempre il loro difficile equilibrio.

Gianfranco Brunelli
Direttore de “Il Regno”