Derio Olivero, 59 anni, vescovo a Pinerolo dal 2017, è un appassionato d’arte, di fotografia e di montagna. A marzo, nel pieno della prima ondata del Covid-19, si è ammalato e ha trascorso diversi giorni in terapia intensiva. Dopo le cure e la convalescenza è tornato al lavoro. Quando in Italia è partita una nuova ondata di contagi ha chiesto ai propri fedeli un «sacrificio di due settimane», rinunciando alla messa nel fine settimana, per contenere il contagio e aiutare così medici e infermieri impegnati negli ospedali.

Mons. Olivero, come sta di salute? Come sta vivendo questa nuova ondata di contagi in Italia?

«Io sto finalmente bene, perché sono guarito, anche se la ripresa è stata lunga, è proseguita a luglio, agosto e settembre. Da ottobre finalmente mi sento bene. Speravo non si dovesse vivere di nuovo una situazione come questa. Sono vicinissimo ai malati, perché so ahimè che cosa significa, e a quelli che hanno parenti ammalati. Mi sento molto vicino anche alla fatica incredibile che la nostra società sta vivendo a causa della crisi economica, per la perdita di posti di lavoro: una crisi davvero grande».

 

A Pinerolo avete scelto di non celebrare la messa per alcune settimane. Una decisione difficile che avete preso in parallelo con la Chiesa valdese. Che cosa vi ha convinti in questa direzione?

«Sì, è stata una decisione molto pensata all’interno della Chiesa cattolica e condivisa con la Chiesa valdese. Di fronte a un’emergenza come questa, tutti quanti dobbiamo fare degli sforzi per ridurre il contagio. Dobbiamo farli tutti, volontariamente, ognuno per come è capace. Non basta rispettare le regole imposte dalle istituzioni: ognuno in casa sua, assieme ai suoi conviventi deve fare di tutto per evitare i contagi. Per questo occorre evitare a tutti i costi gli assembramenti. E la messa della domenica produce sicuramente degli assembramenti anche se con distanziamento e mascherine. Per questo ho pensato che noi cristiani, anche se non ci è stato imposto, avremmo dovuto fare un passo indietro, un sacrificio, per il bene comune».

 

Dopo la sua decisione ha ricevuto diverse critiche. Si aspettava una reazione di questo tipo? Che cosa risponde a chi vuole le chiese sempre aperte e le celebrazioni eucaristiche in presenza anche durante l’emergenza?

«Quando si fa una scelta, soprattutto in un’epoca di emergenze, si è consapevoli che non sarà mai la scelta migliore in assoluto. Noi siamo riusciti a fare questa scelta ed è normale che molte persone abbiano altri punti di vista, che io rispetto profondamente. La cosa che più mi colpisce è che la maggioranza di quelli che non sono d’accordo sulla decisione presa, scrive la propria contrarietà con una violenza inaudita. Io credo che un cristiano violento non sia un cristiano, al di là delle opinioni. In genere cerco di rispondere a tutti quelli che mi scrivono personalmente; ma la violenza, l’insulto, credo non si addica a un cristiano. È molto bello che ci sia una Chiesa che può parlare con diversità di opinioni sul modo di essere cristiani nella storia oggi. Ed è bello che ci siano posizioni diverse sul modo di incarnare il cristianesimo oggi: questa è la ricchezza della Chiesa. Ma non condivido per nulla la violenza e i toni violenti».

 

Tra le categorie che faticano di più in questo tempo ci sono i giovani. Quale messaggio rivolge a loro?

«Nella lettera in cui provo a spiegare la mia scelta, cito due volte i giovani. Mi pare che noi adulti non ci stiamo rendendo conto di quale sacrificio la pandemia sta chiedendo ai giovani: non possono fare scuola in presenza – e questo è un impoverimento –, non possono fare sport, non possono trovarsi la sera a fare due chiacchiere con gli amici. Tutti siamo stati giovani e sappiamo benissimo che sono cose importantissime per un giovane. Non voglio equiparare lo sport alla messa, ci mancherebbe; sto dicendo che ai giovani stiamo chiedendo sacrifici grandi, dunque sarebbe un bell’esempio dire che anche noi adulti, anche gli anziani, vogliono fare insieme a loro un sacrificio per il bene di tutti. E far sì che questo contagio possa finire il prima possibile perché anche i giovani possano esprimersi di nuovo, come è giusto che sia».

 

Ci avviciniamo al periodo di Avvento e quindi al Natale. Che cosa chiede ai suoi fedeli per questo tempo?

«Chiedo ciò che ho già chiesto all’inizio dell’anno pastorale, a settembre: la fiducia. Noi abbiamo la fortuna di essere dei credenti, gente che ogni giorno cerca di credere. Abbiamo la fortuna di avere la certezza che il Signore ci sorregge e ci accompagna e per questo possiamo essere fiduciosi. E possiamo essere “contagiatori” di fiducia con le altre persone, compresi i non credenti. Ho preparato un biglietto da tavolo da distribuire a tutte le famiglie, con raffigurato il dipinto “La tempesta sedata” di Delacroix, che è un bellissimo inno alla fiducia anche nella tempesta. In quel quadro è raffigurata Maria Maddalena che dice agli apostoli impauriti alzando le braccia: fidatevi, il Signore è sulla barca con noi. Questo chiedo ai fedeli. Natale è il Signore che viene su questa nostra barca che è un po’ in tempesta, ma lui è sulla barca con noi».

 

Questo messaggio assume un valore ancora maggiore dopo la decisione che avete preso in diocesi di sospendere le messe in presenza.

«Credo di sì. Noi celebriamo un Dio che si è incarnato, che è entrato dentro la storia. E dunque noi, suoi discepoli, dobbiamo sempre osare di stare dentro la storia, non scappare. In molti messaggi di critica, anche furibondi, che mi sono arrivati, leggevo ahimè il rischio di una Chiesa che tira dritto anche dentro la pandemia: l’importante è che salvi se stessa. Invece noi siamo incarnati nella storia e siamo qui per essere salvezza per gli altri. Un vero cristiano è un cristiano che lavora per la salvezza di tutti, grazie al fatto che Cristo è morto per tutti».

Paolo Tomassone

Giornalista

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