C’è un’immagine che attraversa l’intera storia americana e che si è caricata, negli anni, della forza inarrestabile del simbolo. A coniarla, parafrasando l’evangelista Matteo (cf. 5,14), fu nel 1630 il leader puritano John Winthrop, appena sbarcato sul suolo americano: «Noi saremo come una città sulla collina. Gli occhi di tutte le genti saranno su di noi». C’è, nella formula di Winthrop, una sintesi perfetta degli ingredienti che si fonderanno nella retorica nazionale a stelle e strisce: un mito di fondazione, una viva profezia, il senso della missione che avrebbe innervato il destino del paese, la certezza della grazia operante nella storia ma anche di un primato che sfocerà nelle teorizzazioni dell’eccezionalismo americano. La visione della «città sulla collina» è, ancor oggi, una delle più potenti auto-rappresentazioni dell’America stessa.
Ma cosa accade quando la trasparenza rivendicata dalla «città sulla collina» è intorpidita dall’ingiustizia? Quando l’esempio luminoso è reso opaco dalla discriminazione, macchiato dal discorso razziale? La straordinaria esperienza di Martin Luther King nasce dentro questa terribile, lacerante, contraddizione tra il piano ideale – «il faro delle nazioni» – e la sua sistematica negazione – l’ingiustizia sociale e razziale –. Merito di Paolo Naso, docente di Scienza politica all’Università La Sapienza, è aver identificato in questo conflitto il nucleo, assieme incandescente e tragico, della vita del pastore battista.
Proprio la radicalità e la complessità dell’etica politica di King – un’etica mai confinata nel piano dell’astrazione ma, anzi, sempre riversata nell’esperienza e nella lotta non violenta – rese quella contraddizione sempre più stridente e non più accettabile. Naso (in Martin Luther King. Una storia americana, Laterza, Roma – Bari 2021, pp. 224, € 18,00) sottrae la figura del reverendo a qualsiasi opzione agiografica, smascherando anzi l’ideologia nascosta in questa operazione: rendere King una figura immune da qualsiasi tratto umano significa stendere un velo di silenzio su quelle contraddizioni contro cui il pastore lottò strenuamente. Un’abrasione della dirompente novità di King iniziata subito dopo la morte.
«L’iperbole retorica – scrive Naso – che accompagnò le esequie e orientò una densa produzione di biografie apologetiche, infatti, coprì i contenuti più radicali sui quali egli si era speso negli ultimi anni della sua vita – la denuncia della guerra in Vietnam, la lotta contro la povertà persistente nel paese più ricco del mondo –, costruendo un “mito popolare” condiviso anche dalla popolazione afroamericana, senza che però questo incidesse sulla dinamica “razziale”» (15).
Non a caso, lo storico ricostruisce le rotture, le indecisioni, le curve che imboccò, le difficoltà che il percorso di King attraversò. Fino alla svolta, coincisa con il «no» deciso alla guerra del Vietnam, che contribuì a creare attorno al pastore quell’isolamento e quel vuoto che gli costarono la vita.
«King – argomenta Naso – non fu ucciso quando era all’apice della popolarità – e cioè dopo il conseguimento del Premio Nobel per la pace nel 1964, alla vigilia del Voting Right Act che finalmente concesse il diritto di voto a tutti gli afroamericani –, ma in un momento difficile e controverso nel quale gli piovevano addosso critiche da destra e da sinistra e nel quale si era ormai rotto l’incantesimo che cinque anni prima, nel grande raduno di Washington, aveva affascinato l’America» (4).
Che cosa provocò questa emorragia di consensi? Cosa privò King di quella solidarietà che aveva accompagnato e circondato le sue battaglie? Il motivo di questo smottamento va ricercato – nella lettura di Naso – nella svolta dell’ultimo King: pur non rinunciando mai al metodo non violento, il pastore aveva radicalizzato la decostruzione del sogno americano, che appariva ai suoi occhi sempre più come un incubo.
Un incubo che rispondeva a tre nomi, a tre mali – razzismo, materialismo, militarismo – che s’intrecciavano, coagulandosi, nella guerra del Vietnam. «La guerra in Vietnam fu il detonatore (…) che indusse King a denunciare non più il singolo provvedimento o particolari decisioni politiche ma il “sistema” americano nel suo complesso. La parola chiave che meglio ci aiuta a comprendere questo processo è, probabilmente, “tradimento”. King denunciava che, con le sue politiche razziste e militariste, l’America tradiva le promesse solenni contenute nella Dichiarazione d’indipendenza e nella Costituzione» (200).
Dopo la stagione della lotta per i diritti civili, culminata nella grande marcia di Washington del 1963, King dovette confrontarsi con frange più estremiste e radicali (e violente). La sua stessa leadership fu scossa, sfidata da nuovi soggetti che vedevano nella violenza una «risorsa» a cui fare massicciamente ricorso. Significativo, in questa ottica, fu il rapporto con l’altra voce del dissenso afroamericano, quel Malcolm X che con King condivise il tragico destino: Malcolm X fu assassinato il 21 febbraio del 1965, tre anni prima di Martin Luther King.
Naso smonta qui un falso mito: quello dell’incompatibilità dei percorsi imboccati dai due leader. Certo le distanze tra i due erano abissali. Così come opposte erano le strategie e gli obiettivi politici che si prefiggevano: «Azione non violenta in vista di una società “integrata” per Martin; lotta anche violenta in vista della conquista del Black Power per Malcolm» (147).
Ma le visioni dei due leader convergevano sullo svelamento del lato ambiguo, oscuro, persino mortifero, del sogno americano: quel velo nero che faceva del sogno un incubo. «No, io non sono americano», proclamava Malcolm, marcando con il suo «no» qualsiasi possibilità d’integrazione nella società bianca. «Ci sono dei momenti in cui il silenzio è tradimento. È il nostro caso, oggi, per quanta riguarda il Vietnam», gli rispondeva idealmente King.
Per comprendere appieno quella stagione, Naso mostra come la vicenda di Martin Luther King non sia stata una fiammata improvvisa ma il risultato di una semina antica che, veicolata dalle Chiese nere, si nutriva di due grandi tradizioni. Il puritanesimo da una parte, il costituzionalismo dall’altra, che codificò una potente novità del pensiero politico americano: la ricerca della felicità come un diritto dell’uomo costituzionalmente sancito.
Su questo sfondo, teologico e politico assieme, King innervò la lezione della non violenza. Qui Naso sgombra il campo da possibili equivoci. Il gandhismo adottato dal movimento per i diritti civili fu un mezzo o un fine? In realtà quella di Martin Luther King, come l’autore ha scritto in un precedente volume, fu «un’adesione pragmatica e non filosofica alla non violenza gandhiana», e lo stesso King «fu sempre molto attento a collocare il suo gandhismo in una prospettiva specificatamente cristologica» (P. Naso, Come una città sulla collina, Claudiana, Torino 2008, 122).
Resta il nodo storiografico più difficile da sciogliere che, a distanza di decenni dalla morte del leader religioso, ancora inquieta la coscienza americana. Perché fu ucciso Martin Luther King? «Il reverendo – scrive Naso – che nel mattino del 3 aprile del 1968 volava da Atlanta a Memphis era una persona moralmente provata e politicamente isolata, ma decisamente orientata ad aprire una nuova fase del civil right movement» (202). Quella fase, che si preannunciava dirompente e che lo stesso King accompagnò con la parola «rivoluzione» – inedita fino ad allora nel suo vocabolario politico –, colpiva al cuore il sistema americano. La denuncia sempre più incalzante che, aveva segnato la svolta, del nesso strutturale «tra razzismo, ingiustizia economica e militarismo» (33) lo espose fatalmente.

Luca Miele
Giornalista