«La pandemia COVID-19 ha recentemente messo una pressione senza precedenti sugli insegnanti perché si adattino rapidamente al nuovo ambiente di lavoro digitale, richiedendo ad alcuni un maggior carico di lavoro e influenzando il loro equilibrio vita-lavoro». Dalla formazione al reclutamento, dalla retribuzione alla carriera, dall’aggiornamento alla valutazione, il Rapporto “Teachers in Europe: careers, development and well-being” fornisce spunti utili affinché il decisore politico possa trasformare questa pressione in un’occasione propizia di innovazione, particolarmente urgente e necessaria in Italia. L’articolo è stato pubblicato sul n. 10 di Regno-Attualità.

Una professione in crisi d’identità e di prospettive, aggravata dallo stress test del COVID specialmente laddove, come in Italia, più evidenti erano i segni del suo declino. Si potrebbero sintetizzare lapidariamente così i risultati della recente indagine su Teachers in Europe: careers, development and well-being effettuata dalla rete europea Eurydice sui 27 paesi dell’UE (a cui sono stati aggiunti Regno Unito, Albania, Bosnia ed Erzegovina, Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Montenegro, Macedonia del Nord, Norvegia, Serbia e Turchia). Il quadro in effetti è sconfortante: corpo docente attempato, poco propenso al cambiamento, che convive con una frazione giovanile precaria e numericamente carente nelle materie scientifiche; scarsi strumenti di valutazione, possibilità – specie in Italia – quasi nulle di carriera… Viene meno l’appeal di una professione proprio quando, a causa della pandemia, agli insegnanti e alla scuola le famiglie chiedono più sostegno.

L’indagine si focalizza sugli insegnanti di scuola media (secondaria inferiore), a partire da due fonti di dati principali: «i dati Eurydice sulle politiche educative e i dati dell’indagine sulle pratiche e atteggiamenti riferiti dagli insegnanti. Inoltre, l’indicatore sull’età degli insegnanti è basato su dati Eurostat».1

Presentiamo qui alcuni spunti tratti dalle conclusioni del Rapporto (15-22) che forniscono le principali informazioni di cui i decisori nazionali, italiani in primis, dovranno tenere conto in vista delle politiche di aggiustamento e di riforma di un settore strategico per la next generation europea.

 

Insegnare per ripiego?

Per quanto riguarda le condizioni di lavoro, salta subito all’occhio che quella dell’insegnante è una categoria lavorativa caratterizzata da un forte precariato: in Europa «1 insegnante su 5 lavora con un contratto temporaneo. Questa condizione occupazionale precaria è in gran parte concentrata sui giovani insegnanti. A livello UE, tra gli insegnanti con meno di 35 anni, 1 su 3 ha un contratto a tempo determinato, e in alcuni paesi, più di 2/3 dei giovani insegnanti hanno contratti a breve termine. L’alta percentuale di contratti precari tra i giovani insegnanti va oltre la flessibilità dei sistemi educativi necessaria all’adattamento a scenari mutevoli, come i cambiamenti demografici o la necessità di sostituzioni temporanee».

Difficoltà nei «processi di reclutamento, quote elevate di insegnanti che vanno in pensione e l’impatto a lungo termine delle recenti crisi economiche con una conseguente riduzione della spesa pubblica» sono le risposte frequenti che i decisori danno rispetto a questa situazione che, per l’Italia, è abbastanza tipica (dove coesiste, oltre all’invecchiamento del corpo docente, la mancanza d’insegnanti di alcune materie assieme alla sovrabbondanza in altre).

È facile comprendere come «l’impatto di alte quote di contratti precari concentrati nei primi anni della carriera gioca un ruolo nella decisione degli insegnanti alle prime armi di rimanere o andarsene» e come in molti abbiano la «percezione dell’insegnamento come di una scelta di carriera poco attraente».

C’è un secondo ambito su cui si potrebbe fare leva per la qualità dell’insegnamento: il carico di lavoro complessivo. Nella maggior parte dei paesi in cui l’orario di lavoro totale è regolamentato, «gli insegnanti a tempo pieno lavorano 40 ore alla settimana, che vanno da 30 ore in Grecia e Albania a 42 ore in Svizzera e Liechtenstein. I dati TALIS rivelano che, in media, gli insegnanti in Europa hanno dichiarato di lavorare 39 ore a settimana».

Secondo altre forme di regolamentazione, «le ore d’insegnamento vanno da un minimo di 12 ore in Turchia a un massimo di 26 ore a settimana in Ungheria. In media, gli insegnanti a tempo pieno nell’UE affermano d’insegnare quasi 20 ore a settimana». Tuttavia, «quando riferiscono di tutte le loro mansioni, gli insegnanti dichiarano di dedicare meno della metà del loro tempo all’insegnamento. Le mansioni direttamente connesse all’insegnamento (cioè la preparazione delle lezioni e la correzione dei compiti) richiedono quasi un quarto del loro tempo».

Altre attività come il lavoro amministrativo, la gestione della scuola, la comunicazione con i genitori ecc. occupano l’altro quarto. «Inoltre, quando gli insegnanti hanno un monte ore più esteso, l’equilibrio tra queste diverse dimensioni cambia. Infatti gli insegnanti che lavorano più a lungo tendono a dedicare, in proporzione, meno tempo all’insegnamento e più ad altri compiti. In proporzione si può arrivare a dedicare solo un terzo del proprio tempo di lavoro totale all’insegnamento».

Già questa analisi del mansionario richiederebbe una approfondita revisione; se poi la si unisce alla questione scottante dello stipendio… emergono le note dolenti. Come si vede bene nell’infografica, il Rapporto mette in luce che «a livello europeo, meno del 40% degli insegnanti è soddisfatto o molto soddisfatto del proprio stipendio».

 

Stipendi appetibili e meccanismi di valutazione

Laddove «lo stipendio effettivo lordo medio degli insegnanti è inferiore al PIL nazionale pro capite, gli insegnanti esprimono una bassa soddisfazione per i loro guadagni», anche se non si può generalizzare. La cosa interessante è che «i dati rivelano che altre circostanze specifiche potrebbero giocare un ruolo nell’insoddisfazione degli insegnanti rispetto agli stipendi, come la lenta e/o modesta evoluzione degli stipendi durante la carriera o i lunghi periodi di stagnazione dovuta ai minori investimenti dei governi nella spesa pubblica». Comunque, «rendere gli stipendi degli insegnanti più attraenti potrebbe anche influenzare le scelte dei giovani sul loro percorso professionale».

Collegata alla questione salariale c’è anche quella della carriera, una prospettiva assente nella scuola italiana ma non in altri sistemi europei. «In Europa – scrive il Rapporto – ci sono due principali modelli di carriera per gli insegnanti. Il primo, definito carriera multilivello è organizzato in livelli formali di carriera lungo i quali gli insegnanti progrediscono. Il secondo, chiamato a livello unico, non ha livelli di carriera formali e la progressione di carriera consiste nell’avanzamento nella scala salariale. Il primo modello permette agli insegnanti di diversificare il loro lavoro a seconda del livello raggiunto (…). Il modello a livello unico fornisce sì l’opportunità di diversificare i ruoli, ma non sempre sono previsti meccanismi di compensazione. La progressione è di solito decisa sulla base del numero di anni di servizio».

«L’insegnamento – afferma il Rapporto – non dovrebbe più essere considerato come una professione isolata, con un limitato o nullo avanzamento di carriera, ma dovrebbe invece entrare a far parte della più grande famiglia delle professioni educative», grazie anche a una ridefinizione del quadro complessivo della carriera.

Una parte corposa del Rapporto è poi dedicata alla formazione iniziale, che, pur essendo composta in tutti i sistemi scolastici dai tre elementi base della conoscenza della materia, della teoria pedagogica e di una sufficiente pratica in classe, varia molto da paese a paese, specialmente per quanto riguarda il terzo elemento, quello della formazione sul campo: essa «varia dal 50% della durata totale della formazione iniziale in Belgio (comunità francese), Irlanda e Malta all’8% in Italia e Montenegro».

Si parla anche di formazione permanente, diffusa uniformemente, ma diversificata in ottica disciplinare solamente in Nord Europa; di valutazione degli insegnanti, finalizzata sia all’avanzamento di carriera sia alla restituzione di feedback utili ai docenti stessi per migliorare la propria professionalità (obiettivi entrambi sconosciuti in Italia); di mobilità trans-nazionale per motivi professionali, scarsamente sperimentata in Italia e comunque prevalentemente utilizzata in Europa dagli insegnanti di lingue (70%) e molto meno dai docenti di altre materie, anche per la scarsa conoscenza delle lingue, la mancata copertura dei costi o delle supplenze necessarie a garantire il viaggio…

In conclusione – dichiara il Rapporto – «la pandemia COVID-19 ha recentemente messo una pressione senza precedenti sugli insegnanti perché si adattino rapidamente al nuovo ambiente di lavoro digitale, richiedendo ad alcuni un maggior carico di lavoro e influenzando il loro equilibrio vita-lavoro». Dalla formazione al reclutamento, dalla retribuzione alla carriera, dall’aggiornamento alla valutazione, il Rapporto fornisce spunti utili affinché il decisore politico possa trasformare questa pressione in un’occasione propizia di innovazione, particolarmente urgente e necessaria in Italia.

La nostra classe politica è pronta? E poi, sono pronti gli insegnanti italiani?

 

 

1 La nota metodologica del Rapporto dichiara: «Le informazioni di Eurydice sulle politiche educative sono state raccolte attraverso un questionario compilato da esperti nazionali e/o dal rappresentante nazionale della rete Eurydice. Le fonti primarie delle informazioni di Eurydice si riferiscono sempre ai regolamenti, alla legislazione e agli orientamenti ufficiali emessi dalle autorità educative di livello superiore, a meno che non sia indicato diversamente. Le informazioni sulle politiche educative sono integrate dai dati dell’indagine internazionale sull’insegnamento e l’apprendimento (TALIS) dell’OCSE. Mentre il primo è utilizzato per analizzare il contesto politico e sistemico in cui gli insegnanti imparano, lavorano e fanno carriera, il secondo dà voce agli insegnanti stessi e ai direttori scolastici. L’anno di riferimento per i dati Eurydice è il 2019/2020, mentre quello per i dati TALIS è il 2018. Nel mettere in relazione i dati TALIS 2018 con la politica di Eurydice e il contesto sistemico, i cambiamenti nella legislazione tra il 2018 e il 2019/2020 sono stati evidenziati nell’analisi» (26).

Maria Elisabetta Gandolfi

Caporedattrice Attualità per “Il Regno”

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