I vescovi USA e la questione della comunione per il presidente Biden

Nelle ultime settimane si è aggravata la crisi nei rapporti tra la conferenza episcopale negli USA e l’amministrazione Biden, ma anche tra i vescovi e il pontificato di Francesco, attorno alla questione dell’accesso all’eucarestia per i politici che hanno posizioni incompatibili (specialmente sull’aborto) col magistero della chiesa.

La questione nasce molto prima dell’elezione di Biden, quando nel 2004 è un cattolico praticante, ma pro-choice e del Partito democratico, a correre per la presidenza e alcuni vescovi si pronunciano contro la partecipazione di John Kerry alla comunione. Ma la questione rimane all’interno della dinamica della campagna per le elezioni che Kerry poi perde contro George W. Bush. Riemerge in modo diverso nel 2020, quando Joe Biden diventa presidente e la conferenza episcopale deve rapportarsi col primo presidente cattolico degli USA nell’era della biopolitica e delle “guerre culturali” – uno dei problemi che John F. Kennedy nel 1960 non aveva. È interessante notare che la conferenza episcopale sia rimasta silente sulla questione negli otto anni in cui Biden era il vicepresidente di Obama, come anche per tutti quei politici repubblicani le cui posizioni su una lunga serie di questioni (a cominciare dalla pena di morte) sono chiaramente contrarie al magistero.

Il passo precedente però è nella assemblea della USCCB del novembre 2019, quando dopo un aspro dibattito, la conferenza decide di approvare una lettera (in preparazione alla campagna elettorale per le presidenziali del 2020) in cui si definisce la questione dell’aborto “preminente” su tutte le altre. È la consacrazione a livello magisteriale del dogma politico fondamentale per i rapporti tra chiesa e politica negli USA, cioè la centralità assoluta della questione dell’aborto, che in America diventa legale nel gennaio 1973 con una sentenza della Corte Suprema (e in un quadro legislativo molto diverso da quello dell’interruzione di gravidanza in Europa occidentale). Il fatto che questa consacrazione avvenga durante la presidenza Trump dice molto dell’allineamento tra la maggioranza dei vescovi e il Partito repubblicano.

Il risultato delle urne del novembre 2020, con l’elezione del secondo presidente cattolico, fa scattare immediatamente il piano per un’azione della conferenza episcopale intesa a mettere un altolà a Biden e ai politici cattolici pro-choice (che, al contrario di una volta, da alcuni anni a questa parte sono soltanto nel Partito democratico): prima con una commissione episcopale segreta (la cui esistenza ben presto trapela) che viene smantellata dopo pochi mesi, e poi con l’aggiunta nell’agenda dell’assemblea dei vescovi del giugno 2021 di una discussione sull’opportunità di un documento sulla cosiddetta “coerenza eucaristica” (Cf. “Il Regno – att.”, 22/2020, pp. 657-658).

L’assemblea dei vescovi del giugno 2021 è preceduta da due eventi importanti. Il primo è la lettera del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Luis Ladaria Ferrer, che mette in guardia i vescovi dal procedere verso un passo del genere: è la lettera del 7 maggio (Cf. “Il Regno – doc.”, 11/2021, p. 346) in risposta a una missiva del presidente della USCCB che informava la CDF delle intenzioni dei vescovi. (Cf. “Il Regno – att.”, 12/2021, pp. 349-350).

Il secondo atto di rilievo è una lettera che il 13 maggio sessantotto vescovi (tra cui i cardinali Blase Cupich di Chicago, Joseph Tobin di Newark, Wilton Gregory di Washington, D.C., e Sean O’Malley di Boston) scrivono ai confratelli esprimendosi contro l’idea di un documento che proponga o implichi l’esclusione dei politici cattolici pro-choice dalla comunione eucaristica (alcuni dei vescovi, tra cui il cardinale Timothy Dolan di New York, hanno poi ritirato la firma una volta che il documento è stato divulgato).

Questi schieramenti, con una sessantina di vescovi contro il documento e il resto a favore, si confermano all’assemblea del 16-18 giugno. Il dibattito vede il tentativo della presidenza (assai debole e incerta) dell’arcivescovo di Los Angeles, Gomez, di riconfigurare la proposta di un documento come un insegnamento sull’eucarestia, senza obbiettivi politici; ma una parte non trascurabile di vescovi conferma come in realtà la presidenza Biden sia il vero obbiettivo dell’offensiva. La proposta del documento riceve il voto favorevole di 168 vescovi (il 73%), 55 contrari, e 6 astenuti. La commissione dottrinale della USCCB stilerà il documento che verrà esaminato e votato all’assemblea di novembre. I documenti della USCCB richiedono una maggioranza dei due terzi per essere approvati e il voto preliminare del giugno 2021 ha valicato questa soglia. Rimane da vedere cosa accadrà all’interno della conferenza nei prossimi mesi e quale forma assumerà il documento nella sua forma definitiva.

Il risultato del voto del 17 giugno ha innescato una reazione non solo ecclesiale (sui media cattolici e sui social media, in assenza di organismi di rappresentanza del laicato nella chiesa cattolica negli USA), ma anche politica. Un “documento di principi” firmato e pubblicato da sessanta parlamentari federali cattolici (tutti del Partito democratico) rispondeva ai vescovi: non sulla base di un argomento di laicità ma di una visione del ruolo della chiesa incentrata sulle questioni sociale care al progressismo (e ignorando la questione dell’aborto). Parlamentari cattolici hanno sfidato i vescovi a negare loro la comunione. La diatriba ha assunto i toni da campagna elettorale o, peggio, da fund raising. Al settarismo dei vescovi si contrappone un settarismo – tipico della mentalità religiosa nordamericana – in cui riconoscersi politicamente nella leadership è un criterio di membership ecclesiale.

La presidenza della USCCB ha cercato di correre ai ripari: il 21 giugno ha mandato a tutti i vescovi, e invitato i vescovi a inviare ai parroci per tutti i fedeli, due pagine di spiegazioni (sotto forma di FAQ) in cui si negava qualsiasi finalità politica della decisione di stilare un documento sull’eucarestia e in particolare di negare la comunione ai politici.

Ma una parte dell’episcopato non ha fatto mistero, durante e dopo l’assemblea della USCCB, di considerare la partecipazione ai sacramenti di Joe Biden (e, tra gli altri, della presidente della Camera, Nancy Pelosi) un obbiettivo legittimo in questa escalation delle “guerre culturali”.

A livello canonico, il prossimo documento della USCCB non dovrebbe avere effetti pratici sulla comunione per i politici: c’è un consenso sul fatto che compete all’ordinario del luogo decidere dell’accesso alla comunione in casi particolari. Nel caso specifico del presidente Biden, poi, esiste (al netto di tutte le considerazioni di ecclesiologia della chiesa locale) una tradizione per cui compete direttamente al papa decidere quando si tratta di capi di stato. Tuttavia, in pratica, la presa di posizione di alcuni membri della USCCB crea delle diocesi del paese che si configurano per il secondo presidente cattolico degli Stati Uniti come delle zone di non accesso alla comunione diocesi in cui gli ordinari hanno direttamente (Salvatore Cordileone a San Francisco) o indirettamente (Samuel Aquila a Denver e alcuni altri) intimato a Biden di non presentarsi alla comunione per la messa. Data la presente situazione di anarchia clericale nella chiesa cattolica negli USA, anche in altre diocesi non sarebbe del tutto sorprendente vedere parroci che interpretano liberamente il voto della USCCB applicando autonomamente una politica di esclusione di alcuni tipi di membri della chiesa dalla comunione eucaristica.

La questione ha valicato i confini della sola stampa cattolica o religiosa ed è approdata sui media generalisti e nelle conferenze stampa della Casa Bianca, dove si è cercato di non versare benzina sul fuoco, definendo “privata” una controversia, quella sui sacramenti, che ovviamente è pubblica anche dal punto di vista teologico. Biden può contare sull’appoggio di alcuni cardinali e vescovi e in particolare dell’arcivescovo di Washington, cardinale Gregory. Ma la linea dura della USCCB ha creato una varietà di risposte diverse da parte di Biden e del suo partito. C’è poi il problema dell’unità della chiesa negli Stati Uniti che mostra sempre più crepe. C’è infine il rapporto tra i vescovi e la Santa Sede: dal punto di vista sia pastorale sia diplomatico, tra il Vaticano e la USCCB continua; si approfondisce il fossato che era già visibile nel 2013.

La differenza è che oggi, dopo otto anni di pontificato, è evidente che Francesco non è riuscito a modificare gli equilibri di forza interni alla conferenza episcopale, nonostante una politica di nomine episcopali accorta. Ma c’è una differenza tra essere vescovi nominati o promossi da Francesco, ed essere vescovi capaci di interpretare il pontificato come superamento delle “guerre culturali”. I soli leader dalla parte di Francesco, ad oggi, sono gli ordinari di Chicago, Newark, Washington, San Diego, Seattle, Santa Fe, El Paso, e pochi altri. In otto anni, nessuno dei vescovi nominati o promossi da Francesco è stato eletto dai confratelli a posizioni di responsabilità nella USCCB.

Massimo Faggioli

Teologo

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