Rivoluzionaria nell’intenzione missionaria e sinodale, buona in una decina di decisioni innovative, irrilevante nell’immediato: è questa la mia idea della riforma della curia romana promulgata da Francesco sabato 19 marzo con la costituzione apostolica Praedicate Evangelium e presentata lunedì 21 alla stampa.
Le intenzioni rivoluzionarie sono due: dare il primo posto alla predicazione del Vangelo (noi italiani lo chiameremmo «primato dell’evangelizzazione»), aprire a laiche e laici i ruoli di governo. Ma non lo sono già? Aprirli sempre e dappertutto, dice ora il documento di riforma, tranne quando sia espressamente previsto che un tale ruolo spetti a un chierico.
La riforma della curia del papa gesuita, che da giovane voleva andare missionario, non poteva non essere una riforma missionaria: e questa lo è, quantomeno nelle intenzioni dichiarate, nel titolo della Costituzione che la promulga, nella precedenza data agli organismi preposti all’evangelizzazione. Questo è a mio parere il miglior pregio – almeno in idea – della riforma.

 

Laici e laiche in ruoli di governo

Il secondo è simile al primo, nel senso che è un’idea altrettanto grande ma al momento è anch’essa solo affermata: in nome della «pari dignità» di tutti i membri del popolo di Dio, la riforma «prevede il coinvolgimento di laiche e laici anche in ruoli di governo e di responsabilità». Qui è affermata una novità rispetto alla Pastor Bonus di Giovanni Paolo II (1988), che riservava «a coloro che sono insigniti dell’ordine sacro gli affari che richiedono l’esercizio della potestà di governo». La novità consiste nell’attribuire la potestà di governo non più all’ordine sacro ma alla «missione canonica»: e si tratta dunque di una «potestà vicaria conferita con la nomina a tale ufficio, che è la stessa se ricevuta da un vescovo, da un presbitero, da un consacrato o una consacrata, oppure da un laico o una laica». Questa è stata la spiegazione della novità canonica che ha fornito stamane a noi giornalisti il giurista gesuita – ed ex rettore della Gregoriana – Gianfranco Ghirlanda.

 

Prima l’evangelizzazione

Questa riforma della curia romana intende collaborare alla «conversione missionaria della Chiesa» che Francesco si era proposto già con la Evangelii gaudium (2013). Tale intenzione è segnalata già dall’organigramma curiale: il primo dicastero dopo la Segreteria di stato non sarà più la Congregazione per la dottrina della fede, ma il nuovo Dicastero per l’evangelizzazione, che accorperà la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e il Consiglio per la nuova evangelizzazione e sarà direttamente presieduto dal papa, affiancato da due pro-prefetti.
Una conduzione privilegiata, riservata al papa, che richiama l’analoga conduzione papale del Sant’Uffizio, che durò fino alla riforma montiniana del 1968. Il prefetto della «Suprema sacra Congregazione del Sant’Offizio» era il papa, mentre il responsabile operativo ne era il segretario: e queste nomenclature durarono fino al cardinale Ottaviani, che appunto ne fu segretario fino alla riforma, quando gli subentrò il cardinale Seper con il titolo di prefetto.
Insomma con Francesco il ruolo che fu della dottrina viene assunto dall’evangelizzazione. E qui ci sono molti e validi significati.

 

A contrasto del carrierismo

Buona è anche la nascita di un Dicastero per il servizio della carità che, «chiamato anche Elemosineria apostolica, è un’espressione speciale della misericordia e, partendo dall’opzione per i vulnerabili e gli esclusi, esercita in qualsiasi parte del mondo l’opera di assistenza e di aiuto verso di loro a nome del romano pontefice». Il papa «nei casi di particolare indigenza o di altra necessità, dispone personalmente gli aiuti da destinare».
Ottima – per contrastare il carrierismo che sempre alligna negli anfratti curiali – la previsione che gli incarichi siano quinquennali e che «di regola dopo un quinquennio, gli officiali chierici e membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica che hanno prestato servizio nelle istituzioni curiali e negli uffici facciano ritorno alla cura pastorale nella loro diocesi/eparchia, o negli istituti o società d’appartenenza». Ma ovviamente vi può essere la proroga «per un altro periodo di cinque anni».

 

A servizio anche dei vescovi

Buoni spunti sono rintracciabili nel documento anche in direzione di una «sana decentralizzazione» del governo della Chiesa, che lasci alla competenza dei pastori diocesani/eparchiali «la facoltà di risolvere nell’esercizio del loro proprio compito di maestri e di pastori le questioni che conoscono bene e che non toccano l’unità di dottrina, di disciplina e di comunione della Chiesa».
La curia ridisegnata da Francesco si propone non solo come «servizio al papa» ma anche come «servizio alla missione dei vescovi». Questo secondo servizio è dettagliato in modo promettente: «consiste, in primo luogo, nel riconoscere e sostenere l’opera che [i vescovi] prestano al Vangelo e alla Chiesa, nel consiglio tempestivo, nell’incoraggiare la conversione pastorale che essi promuovono, nell’appoggio solidale alla loro iniziativa evangelizzatrice e alla loro opzione pastorale preferenziale per i poveri, alla protezione dei minori e delle persone vulnerabili e a ogni contributo a favore della famiglia umana, dell’unità e della pace; in breve, alle loro iniziative affinché i popoli abbiano vita abbondante in Cristo».

 

Conoscendo l’inerzia clericale

La mancanza di effetti immediati della riforma è dovuta anche al fatto che molte innovazioni alle quale la costituzione apostolica fornisce un inquadramento definitivo sono già in atto: negli anni Francesco è venuto accorpando consigli e dicasteri, creandone di nuovi (soprattutto nel settore economico), ristrutturandone altri (dalla Segreteria di stato alla Dottrina della fede).
Tutto bene dunque? No: non tutto. I canonisti valuteranno le singole innovazioni. All’osservatore che non dispone di strumenti specifici di valutazione tocca comunque esprimere una riserva, o un’insoddisfazione personale sul ruolo dei laici e delle donne. È il punto della maggiore novità canonica, come dicevo sopra. Ed è un bene che quella novità sia stata affermata. Ma realismo vuole che si tenga conto di quanto la macchina curiale sia indietro su questo lungo viale.
Fino a un mese fa non si vedeva una donna sul palco papale delle udienze. Solo ora ve ne sono – iniziano a esservene – tra quelli che leggono nelle varie lingue. E non c’era nessun impedimento perché ve ne fossero. Ma l’inerzia clericale comportava che non vi fossero. Ora un documento di grande visione prospetta la possibile chiamata di laiche e laici non solo sul palco ma addirittura a capo della maggioranza degli organismi curiali: ma quando ciò avverrà?
Forse il documento poteva prevedere tra i suoi tanti articoli (sono 250) almeno qualche comma di avviamento di quella chiamata. Che so: qua e là la previsione di un minimo di presenze non ecclesiastiche, dove ciò fosse già possibile. O di modalità nella provvista di tali presenze. Un’affermazione di principio così alta e la totale mancanza dei gradini necessari a raggiungerla fanno temere tempi lunghi in una sfida nella quale la Chiesa di Roma è già in terribile ritardo.

Luigi Accattoli

Vaticanista

Un pensiero riguardo “Riforma curia: missionaria e sinodale

  • 30 Marzo 2022 in 20:21
    Permalink

    Interessante come filosofia di riorganizzazione ignara dell’avversione pregiudiziale di coloro che dovrebbero interpretarla: i canonisti formati (o deformati) nelle scuole di Curia, robot ignari di tutto quanto non si riduca ad obbedienza cieca al Superiore più prossimo, per natura infallibile ed insindacabile.
    Pregiudizialmente, introdurrei il ‘due process’ e la separazione dei poteri (abolita da Gasparri col can. 1601 del CIC 1917). Ma il lavoro successivo dovrebbe essere dissodare una ‘cultura’ giuridica in modo permanente deformata dal mito dell’inerranza del potere.
    Se una ‘cultura’ del genere non avesse durevolmente penetrato dei suoi virus una corporazione che ha rinunciato all’ermeneutica del fatto (tanto c’è la pontificia Commissione per l’Interpretazione, ah! ah!), non si spiegherebbe come mai l’innovazione gasparriana continua a essere ritenuta vigente anche se nulla in proposito è detto nelle codificazioni successive.
    Jellinek avrebbe parlato qui di forza normativa del fatto. E il golpe del card. Gasparri (silenziosamente attuato e ampliato nel sessennio dopo la codificazione, in contrasto con le opinioni di Pio X e del Decano della Rota, il card. Lega) è appunto un fatto.

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