Prete, teologo e sociologo, mons. Tomáš Halík è una figura eminente della Chiesa ceca. Ha vissuto in prima persona l’esperienza della Chiesa clandestina sotto il regime comunista riuscendo a trarre uno sguardo penetrante non solo su quella vicenda ma sul presente e sul futuro del cristianesimo in Europa.
Sono sorprendenti le affermazioni sul giudizio superficiale dato dagli occidentali su Putin, fatte giusto un mese prima della guerra scatenata in Ucraina.
Proponiamo un brano dell’intervista integrale a cura di François Euvé apparsa sul n. 6 di Regno-attualità (marzo 2022, nostra traduzione dal francese pubblicato dalla rivista Études). (M.E.G.)
L’Ottantanove e la globalizzazione
– Che cosa può offrire a noi, occidentali del XXI secolo, l’esperienza di uno che è vissuto sotto il regime comunista?
«I miei studenti, nati attorno all’anno 2000, sono già cittadini dell’Europa occidentale. Per loro il comunismo è come ciò che era la monarchia degli Asburgo per la mia generazione: un lontano passato. Io ho trascorso la mia infanzia sotto lo stalinismo, la mia giovinezza negli anni Sessanta, quando i miei professori della Facoltà di filosofia passavano dal marxismo-leninismo all’“euro-marxismo”, all’esistenzialismo, alla fenomenologia e alla psicanalisi. Quest’evoluzione ha raggiunto il suo culmine durante la Primavera di Praga ed è finita sotto i carri armati sovietici, nell’agosto del 1968.
Poi sono arrivati i successivi vent’anni di comunismo, durante i quali nessuno credeva più nell’ideologia comunista, neppure i massimi funzionari del Partito: erano solo apparatik cinici del potere. Dopo il 1968, c’erano molti più marxisti a Ovest che a Est. Poi giunse l’“annus mirabilis 1989”. Non siamo stati noi dissidenti a vincere il comunismo, né siamo stati liberati dall’Occidente. Sono convinto che il ruolo principale nel crollo del sistema comunista l’abbia avuto il processo della globalizzazione».
La democrazia è vulnerabile
«Dopo la creazione di un libero mercato mondiale di beni e di idee – prosegue Halík –, i sistemi comunisti, con le loro economie pianificate dallo stato e la censura della cultura, sono stati rapidamente spazzati via dal violento vento della concorrenza.
Sotto la presidenza di Vacláv Havel abbiamo vissuto una luna di miele con la libertà. Eravamo cittadini europei fieri e felici. Poi è venuta l’era del capitalismo selvaggio. Gli ultimi comunisti, gli unici a disporre di un capitale finanziario, di contatti e di informazioni dopo il 1989, sono diventati i primi capitalisti. L’ideologo del “marxismo rovesciato”, Václav Klaus, l’oppositore di Havel, gli è succeduto alla presidenza. Egli adorava “la mano invisibile del mercato” e ha aperto la porta alla mano invisibile della corruzione grazie al suo disprezzo dell’aspetto etico della politica e dell’economia.
Oggi il nostro presidente, il populista cinico Miloš Zeman, è una marionetta di Vladimir Putin. Che cosa possono dire all’Occidente coloro che hanno vissuto tutto questo? Forse che la democrazia non è solo un sistema politico, ma una certa cultura delle relazioni umane che è molto vulnerabile e deve essere costantemente mantenuta. Lo sapete meglio voi di me».
La paura di perdere l’identità
– Quali sono le minacce più gravi per le nostre società? Quali sono le attese spirituali oggi?
«L’unica cosa di cui bisogna avere paura è la paura. Anche Søren Kirkegaard sapeva che l’ansia è la vertigine della libertà davanti alle sue infinite possibilità.
L’ansia tipica dell’era della globalizzazione è la paura della perdita d’identità, sia negli individui sia nei gruppi. Questa paura suscita un nuovo tipo di nazionalismo aggressivo, un nazionalismo che ricorre spesso alla retorica, alle emozioni e ai simboli religiosi.
Per molto tempo l’Occidente ha creduto che il pericolo di un’unione tra la religione e il potere politico fosse impedito dal principio della separazione tra le Chiese e lo stato. Ma la situazione è cambiata, perché ormai gli stati nazione hanno perduto il monopolio della politica; e le Chiese, quello della religione. Ormai forze sovranazionali s’impegnano nella vita politica sotto forma di potenti società economiche, di iniziative civiche internazionali e di organizzazioni non governative.
I simboli religiosi che si sono emancipati dal loro originario contesto culturale sono diventati una risorsa accessibile al pubblico. La “mano invisibile del mercato” è pronta a rispondere all’interesse verso la spiritualità, proponendo prodotti a buon mercato, esoterismo e kitsch religioso di ogni sorta. Quando i populisti pragmatici usano una retorica religiosa, per esempio atteggiandosi a “difensori di una civiltà cristiana in pericolo”, si tratta più di una sacralizzazione della politica che di una politicizzazione della religione».
Il gruppo di Visegrad e la retorica cristiana
«Quando i simboli religiosi, che contengono un’energia emotiva insospettata, vengono usati come armi nelle guerre culturali e le controversie politiche vengono dipinte come battaglie apocalittiche fra il bene e il male, le conseguenze possono essere veramente disastrose.
I populisti dei paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca) usano spesso una retorica cristiana e, quando sono al potere, tentano di corrompere la Chiesa offrendole vari vantaggi materiali e privilegi. Oggi, gli appelli al “ritorno dell’Europa cristiana” e alla sostituzione della democrazia liberale con una “democrazia illiberale”, ossia uno stato autoritario, risuonano soprattutto in Ungheria e in Polonia (…)
La convergenza fra politici populisti e alcuni ambienti della Chiesa è sostenuta non solo dai nazionalisti dell’Europa occidentale, come Marine Le Pen, ma soprattutto in una forma molto sofisticata dalla Russia. Lo sforzo sistematico della propaganda russa mirante a minare la fiducia verso l’Unione Europea nel mondo postcomunista è rivolto specificamente agli ambienti cattolici conservatori. Oggi, l’ingenuità dell’Occidente verso la Russia di Putin è pari a quella degli anni Trenta verso la Germania».
