Se da più parti si sta pensando al Sinodo come a un evento realmente spirituale. Se dalla fase d’ascolto emerge la necessità di una presa d’atto degli errori compiuti, delle ferite ancora aperte e del fatto che lo stile ecclesiale non può fare a meno di trasparenza e corresponsabilità (accountability), forse stiamo facendo, nonostante tutto, un passo avanti.

Partire da una richiesta di perdono

Il piccolo opuscolo che da qualche tempo è stato reso disponibile on-line dall’apposita commissione per conto della Segreteria dei vescovi e dedicato a Per una spiritualità della sinodalità è una piccola summa su come entrare in un atteggiamento sinodale che sia innanzitutto spirituale (cf. anche la traduzione che Il Regno ha reso disponibile dell’interessante intervista al card. C. Schonborn pubblicata da Communio in merito) e poi solo secondariamente operativo. Lungi dall’essere una mera raccolta di pii pensieri, ne traggo due spunti utili per rileggere alcune tra le recenti considerazioni arrivate dai «sinodi locali».

«Al centro (…) c’è la necessità del perdono e della riconciliazione. Qualunque sia il nostro “essere situati” o il contesto della Chiesa, essa è sempre investita della vocazione alla missione – confessare Cristo e dispensare la misericordia di Dio a tutti gli uomini e a tutte le donne. Parte del realismo della Chiesa consiste nel riconoscere che essa non può esistere senza chiedere la grazia del perdono e della misericordia di Dio. Questa verità non è una conseguenza solo del trauma e della devastazione degli abusi e della corruzione (a più livelli) venuti alla luce recentemente. Il riconoscimento del suo bisogno di misericordia è non solo una necessità ad extra per godere di credibilità agli occhi del mondo; è anche una necessità ad intra tra i protagonisti ecclesiali a vari livelli dentro alla Chiesa universale. (…) Solo allora tutti sono accolti come membri allo stesso titolo nella casa del Signore. Il bisogno di misericordia e perdono si estende anche al passato, non da ultimo per i modi in cui la Chiesa è stata consapevolmente e inconsapevolmente un fattore di oppressione».

 

Lettere aperte in Irlanda e in Portogallo

Un punto centrale, che tuttavia per alcuni risulta indigesto. Ne sono il segno l’agitarsi delle «lettere aperte» inviate a seguito della pubblicazione di alcune sintesi nazionali: in Irlanda e anche in Portogallo. Quasi che l’analisi della realtà, l’ascolto delle voci di fedeli e anche di simpatizzanti fosse di per sé un danno all’immagine della Chiesa, ritenuto più importante della realtà stessa.

Scrive il Consiglio permanente dei vescovi portoghesi: la sintesi nazionale «non è un trattato sulla Chiesa nel suo complesso né un giudizio sulla Chiesa in Portogallo. È una sintesi di quanto emerso nelle tappe diocesane per continuare il cammino di riflessione e trasformazione che abbiamo davanti a noi».

La polemica non è banale e ricordo come abbia investito anche l’indagine statistica avviata dalla Commissione Sauvé in Francia sulla pedofilia nella Chiesa e nella società in generale (tra l’altro ora la Commissione governativa, quindi laica, ha pubblicato dati agghiaccianti: 160.000 casi di violenze e abusi su minori avvengono ogni anno Oltralpe).

 

Gli Stati Uniti, ad esempio

Tra le più recenti sintesi nazionali vi è anche quella della Chiesa statunitense, che apre con un paragrafo dedicato alle «ferite aperte» che l’ascolto sinodale ha fatto emergere. Innanzitutto quella delle conseguenze della crisi degli abusi e delle violenze si fa ancora sentire perché «non solo ha eroso la fiducia nella gerarchia e nell’integrità morale nella Chiesa ma anche perché ha innescato una cultura della paura che impedisce alle persone dall’entrare in relazione le une con le altre e di sperimentare il senso d’appartenenza e connessione del quale sentono una forte esigenza».

Poi quella dell’«infragilimento delle nostre comunità», in atto da tempo ma a cui il COVID ha dato il colpo decisivo. Ancor più grave emerge la ferita di una «Chiesa profondamente divisa» sul tema della liturgia (preconciliare versus conciliare) e quella, definita «grave scandalo» della «mancanza di unità tra i vescovi degli Stati Uniti e persino tra alcuni singoli vescovi e il santo padre»: e, se possibile, tutto ciò è aggravato da un uso partigiano dei media.

Infine, l’ultima ferita, spesso anche conseguenza della precedente, quella dell’«emarginazione», che identifica due grandi gruppi: «coloro che sono vulnerabili a motivo di uno scarso potere sociale o economico, come le comunità di immigrati, le minoranze etniche, coloro che sono privi di documenti, i non nati e le loro madri», poveri d’ogni genere. «Sono comprese in questo gruppo anche le donne, le cui voci spesso sono emarginate nei processi decisionali della Chiesa».

E poi «coloro che sono emarginati perché le circostanze della loro vita sono considerate un impedimento a una loro piena partecipazione nella vita della Chiesa»; come i membri della comunità LGBTQ+, divorziati o risposati senza aver ottenuto la nullità, sposati solo civilmente»…

 

Rendere conto

Il secondo spunto lo traggo laddove il testo vaticano parla del metodo del «consenso» che supera il mero «trovare un accordo» perché opera all’interno di un cammino di fede: «Questa fede si fonda non solo sull’esperienza che lo Spirito Santo è presente e attivo in tutti i membri, ma che è lo stesso Spirito a operare in tutti i membri della comunità». Il consenso «è l’accettazione di una corresponsabilità esercitata da tutti i membri della comunità secondo la misura della grazia che ciascuno riceve per la vita della Chiesa (…) Dalla corresponsabilità deriva il rendere conto. Nello svolgimento della sinodalità, rendiamo conto gli uni agli altri del modo in cui usiamo i nostri doni e le nostre responsabilità per servire la Chiesa e la sua missione. Questa disponibilità a rendere conto è anche un’espressione della nostra umiltà, della nostra apertura a metterci di fronte all’altro, non in una posizione di potere o di soggezione, ma nella comunione di eguali i cui uffici e doni distribuiti sono tutti al servizio di Cristo» (corsivo mio).

Il passaggio è tutt’altro che banale, soprattutto quando, nascondendosi dietro all’adagio – che ha un suo perché, intendiamoci – che afferma che la Chiesa «non è una democrazia» si convocano consultazioni il cui esito non è preso in considerazione, riunioni in cui spesso non è chiaro neppure l’ordine del giorno, si lanciano ipotesi di modifiche al tran tran quotidiano che tuttavia non vedranno mai il giorno. Atteggiamento che scoraggia e sfibra la fiducia nel già fragile tessuto della partecipazione.

 

Un vero passo avanti

Di trasparenza e responsabilità (accountability) parla anche la sintesi dell’inchiesta effettuata da Catholic Women Speak, che ha raccolto la voce di 17.200 donne provenienti da 104 paesi tramite un questionario con risposte sia chiuse sia aperte.

Questo specifico campione di riferimento – che non costituisce «un gruppo omogeneo ma che riflette i numerosi e diversi contesti culturali e comunitari all’interno dei quali la fede è vissuta e praticata» – afferma che in maggioranza le «donne cattoliche sono profondamente preoccupate della trasparenza e della responsabilità (accountability) della leadership e del governo della Chiesa» gestita in maniera opaca e «clericale». Il fatto è preoccupante perché «ha un impatto negativo nella vita della Chiesa» perché contribuisce a far crescere il fossato tra «clero e laici».

In definitiva il processo sinodale sin qui percorso ha insegnato che, anche se iniziato con un certo «scetticismo» – termine usato sia dai vescovi USA sia da quelli italiani –, ha reso possibile un momento «vero», di ascolto e di confronto, di cui bisogna dare atto che la Segreteria generale a Roma sta dando conto passo passo (cf. anche l’intervento del card. Mario Grech nello speciale di Herder distribuito a tutti i vescovi del mondo e disponibile anche in italiano).

E se dall’ascolto arriva un’ammissione di colpa nonché la consapevolezza di una reale corresponsabilità si può dire che un passo avanti è stato realmente fatto.

Maria Elisabetta Gandolfi

Maria Elisabetta Gandolfi

Caporedattrice Attualità per “Il Regno”

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