Da Camaldoli, Guido Mocellin e Daniela Sala
«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla, Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale.».
Si è aperta questa mattina la II Sessione dell’incontro che Il Regno ha organizzato a Camaldoli su «La coscienza e il potere» e Laura Boella ha posto questa parola di Hanna Arendt, scritta nel 1963, al principio del suo intervento, nel corso del quale ha ripercorso con finezza diversi luoghi del pensiero arendtiano per illustrare il tema: «Falsificare il bene. La prima radice dei totalitarismi».
Occupare la lacuna
La discussione su verità e menzogna, ha detto Boella, è il nucleo generativo di tutta la ricerca compiuta da Arendt nell’ultima parte nell’ultima parte della sua vita, dedicata alla moralità del pensare e del giudicare. Il suo obiettivo non è sanare le ferite inguaribili del passato, ma portarci verso un presente e un futuro che devono confrontarsi con gli avvenimenti del passato e assumersene la responsabilità. Secondo Arendt c’è un «Egli» che, con la sua sola esistenza, occupa una lacuna, agisce da forza di contrasto, si interpone tra le forze distruttive del passato e del futuro con un incessante combattimento. Questa lotta fa deviare le due forze, anche se in maniera minima.
Si tratta allora di assumersi la responsabilità di esistere ed esserci lì, in quella lacuna, mettendo in atto la propria capacità di interazione con il mondo e con gli altri, considerando che passato e futuro sono forze che non ci passano sulla testa, ma che puntano su ogni piccolo e fragile essere umano: egli con il suo anonimato è ognuno di noi, spogliato di ruoli e funzioni, in uno dei tanti punti zero dell’esistenza in cui sono in gioco la vita e la morte, la verità e la menzogna, il bene e il male compiuto.
Quando non si crede più a niente
Avviandosi alla conclusione del suo intervento Boella ha sottolineato che quando, a proposito del dibattito pubblico, Arendt afferma, con una «prospettiva straniante», che dire le cose come sono non conduce a nessuna azione, il problema della menzogna diventa un problema che ci tocca direttamente. Chi mente non solo dice il falso rispetto al vero; chi mente è un uomo d’azione che pretende di cambiare la realtà, manipolandola. Nell’epoca contemporanea mentire in politica riguarda ciò che tutti sanno: ad esempio costruendo immagini di onnipotenza, riscrivendo la storia, distruggendo materialmente cose, persone, documenti e simboli di quella storia che si vuole riscrivere, sradicando i cittadini per renderli incapaci di agire.
Ma la manipolazione di massa, la menzogna organizzata dei fatti e delle opinioni, richiede soprattutto l’autoinganno, il mentire a sé stessi. È una questione dunque di «malafede»: è dalla «malafede» che derivano le menzogne utili, che hanno grande successo di pubblico, e annientano la distinzione tra vero e falso, con effetto distruttivo sulla politica, sull’essere insieme nel mondo mettendosi in rapporto con la complessa tessitura della realtà. Perché «la distinzione di verità è falsità è un elemento fondamentale per orientarsi nel mondo», per assumersi delle responsabilità: «cosa impossibile se non si crede più a niente».
