Da Camaldoli, Gabriella Zucchi e Daniela Sala

Come il linguaggio religioso diventa linguaggio politico? Nella seconda giornata dell’incontro che Il Regno ha organizzato a Camaldoli su «La coscienza e il potere», il tema è svolto da Piero Stefani, teologo, esegeta e scrittore, dal 1985 nella redazione della rivista, nella relazione «Visioni religiose del potere e della violenza. Limiti teologici e condizioni storiche».

 

Il patto nel mondo bilico e nel mondo islamico

Il percorso di Stefani parte dall’antico, in un itinerario che elabora l’idea teologico-politica di alleanza/patto nel mondo biblico e nel mondo islamico, con conseguenze che arrivano fino al nostro presente.

L’alleanza biblica per eccellenza, quella stipulata al Sinai, si indica in ebraico attraverso la parola berit, che significa anche impegno, obbligazione. Ne emerge subito un’idea asimmetrica: Dio è fedele, mentre il popolo risulta quasi strutturalmente infedele. Inoltre, ricorda Stefani, le leggi di Dio non sono messe in campo prima dell’accettazione del patto. Gli ebrei dovranno mettere in pratica, non discuterne. E questo è un elemento assolutamente non politico.

Una delle conseguenze dell’alleanza, in ogni caso, è che il Signore è coinvolto nella storia: egli si presenta come uno che ha liberato dal faraone, simbolo del potere politico.

Molto diverso il caso dell’islam, dove non c’è nulla di questo genere. La dimensione coranica ha un’idea di patto pre-storico: prima del tempo, Allah convocò davanti a sé tutta l’umanità domandando di essere riconosciuto come Signore. Data la risposta positiva, egli afferma che ne chiederà conto nel tempo. Da ciò deriva l’idea per cui «homo est naturaliter islamico» e che chi non riconosce Allah nega la propria natura. Questo patto ovviamente non è né politico né storico.

Sul piano storico, per l’islam ha un ruolo fondamentale l’esistenza di un patto posto a livello orizzontale, come inizio della comunità musulmana: è l’umma, una modalità di comunità che non ha paragoni precedenti: un solo popolo distinto da tutti gli altri uomini, una comunità distinta per ragioni di aderenza alla fede.

Stefani sottolinea che quando si fa il patto si pongono delle clausole. Si tratta di una modalità pattizia fondativa di un modello di inclusione e distinzione. È un modello che troviamo anche nella Bibbia. Al capitolo 10 del libro di Neemia si parla della sottoscrizione del patto del Sinai, a cui però fa seguito l’elenco dei firmatari. È interessante come non si usi la parola berit, ma amanah, che sottolinea la messa in campo di un impegno orizzontale. Il patto orizzontale porta tuttavia alla creazione di un’identità delimitata, ben distinta da quella degli altri. Tra le clausole spicca l’espulsione delle spose straniere con i loro figli: quando faccio un recinto, qualcuno resta fuori.

 

Dio tiene le fila della storia?

I patti prevedono delle clausole e la loro violazione comporta forme di punizione comminate da parte del soggetto più autorevole. Vi è una differenza sostanziale se ci si muove nell’ambito orizzontale o se l’asse è soprattutto verticale. Per l’islam il soggetto che punisce è la comunità musulmana. Per la Bibbia ebraica il soggetto che punisce e perdona è, per definizione, il Signore. Secondo la visione deuteronomistica Dio punisce, il popolo si pente e Dio lo reintegra.

Questa diventa una grande teologia della storia. Sulla scena della storia ci sono le potenze storiche: chi è stato a deportare gli ebrei in Babilonia? Nabucodonosor. Ma se io dico che Dio si serve di Nabucodonosor, entro in un concetto di punizione e insieme affermo che è il Signore a tenere le fila della storia.

Siamo di fronte a una struttura fondamentale di interpretazione della storia che è entrata anche in epoca cristiana, dove le guerre stesse sono concepite come azioni di purificazione volute dal Signore.

Questa tradizione, già presente in Agostino, è arrivata fino al ’900. Infatti, Benedetto XV, noto per aver definito la I guerra mondiale «inutile strage», nel contempo implorava Dio affinché deponesse «questo flagello dell’ira sua col quale fa giustizia dei peccati delle nazioni». La rottura rispetto alla tradizionale visione cattolica della guerra arriva comunque, ma a motivo dell’eccesso di catastrofe, che ha spinto ad abbandonarla.

 

La guerra giusta

La storia ci ricorda che spesso l’uomo si è pensato strumento dell’azione di Dio nel punire. Affermare che Dio fa emendare attraverso di noi, porta noi stessi ad agire la vendetta.

Vendicare il male comporta l’uso della violenza e conduce a una questione cruciale legata al detto: il fine giustifica i mezzi. L’espressione di Machiavelli si riferisce tuttavia a una situazione post eventum: per mantenere lo Stato, i mezzi utilizzati dal principe sono giustificati. Se invece ci spostiamo prima dell’evento, il fine è sempre incerto e questa incertezza del fine non garantisce la bontà dei mezzi.

Le religioni affermano l’assolutezza del fine, come per esempio nella “guerra giusta”, pure legata al principio che il fine giustifica i mezzi. La cosa si complica, se la vittima è concepita come sacrificale. Per questa visione, la morte di Gesù da un lato espia ogni peccato e, dall’altro, colpevolizza gli uccisori. Anche se la vittima può riscattare la colpa con il suo perdono, là dove ci sono i martiri il male resta comunque presente nel mondo. Se questa colpa è presente quando c’è la risposta non violenta al male che si subisce, Stefani evidenzia come, a maggior ragione, non se ne esca se si risponde al male con la violenza.

Oggi ci troviamo ad affermare che nessuna guerra è giusta, ma che in alcuni casi l’uso della violenza è inevitabile. Occorre valutare la pertinenza di questa inevitabilità, perché troppo spesso il confine non è chiaro. È la situazione dei nostri giorni.

 

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