Da Camaldoli, Gabriella Zucchi

 

«Denuncio la mia parzialità: sono una donna, sono laica, sono europea, sono cattolica». L’intervento della teologa Stella Morra su «Il mistero dell’altro. Dono di Dio, responsabilità storica» segna la conclusione della VI sessione e dunque dell’intero incontro che Il Regno ha organizzato a Camaldoli su «La coscienza e il potere».

 

L’altro: un sogno e un incubo

Se abbiamo tutti in mente l’immagine dell’uomo vitruviano di Leonardo, con una postura di solidità, dobbiamo rassegnarci al fatto che gli uomini oggi devono, invece, essere acrobati, ragionare secondo altri paradigmi, provare ad assumere un altro punto di vista globale, per non restare impantanati in logiche senza via d’uscita.

Dopo l’immenso numero di studiosi che nel ’900 si sono occupati del tema, ci ritroviamo all’inizio del secolo seguente senza sapere né il senso né la logica dell’altro: un diverso da noi. Paura e futuro rischiano di diventare le parole “totem” degli anni 2000.

Morra propone un brano tratto dalla Debolezza del credere di Michel de Certau che così chiude: «la differenza di razza o di nazione (il nero, il selvaggio, il primitivo, lo straniero), di età (il bambino), di sesso (la donna) o di discorso (il folle) è diventata l’altro “rimosso” dal sistema che si costituisce eliminandolo. Questo altro può essere blandito o temuto. È, di volta in volta, un sogno o un incubo, una immagine paradisiaca o diabolica. Ma, pare, è sempre meglio introdotto nel linguaggio come oggetto, quanto più è escluso dalla città come soggetto».

Si mette in luce qui un meccanismo: l’altro è un sogno e un incubo, evidenzia la teologa. L’altro è “il rimosso” necessariamente per dire i confini che mi consentono di dire “io”. Mentre per i credenti dovrebbe essere chiaro che è il nostro essere creature (altro da Dio) a definirci.

La tesi esposta dalla teologa è la seguente: «nello svolgersi della costruzione della forma occidentale di convivenza dopo la Rivoluzione francese, il trinomio pubblico-privato-comune si è andato riducendo alla polarizzazione pubblico-privato, con un’abolizione del comune. Tutte le “figure” che non hanno avuto automatica rappresentanza nel pubblico (donne, stranieri, zingari, ecc…, ma anche la “terra” senza soggettività) si ritrovano con un “comune” prima azzerato e ora (in tempo di “scarsità”) demonizzato come “nemico (del) pubblico”».

In qualche modo la strutturazione della nostra vita sociale ha di fronte un cambiamento che ritroviamo solo nel neolitico, quando gli uomini, da cacciatori, sono diventati sedentari. I quattro pilastri – la proibizione della violenza intra specie; la regolazione della violenza extra specie; il ruolo sociale delle religioni; la supremazia del maschio sulla donna – sono saltati, il che trasforma l’equilibrio tra pubblico e privato comune.

Restano la difesa dei diritti individuali (ne è un esempio l’esasperazione della privacy) e il pubblico in quanto legge (ad esempio il divieto di fumare). Il nostro mondo è attraversato da un vero e proprio movimento di metamorfosi.

Possiamo sbriciolare in mille sintomi il cambiamento, ma questo è radicale, di paradigma, rendendo insufficienti le categorie di comprensione, come l’esperienza del Covid – dove tutto era di nuovo da spiegare – ci ha ampiamente dimostrato.

La città è un caso, emblematico, del paradigma portato all’estremo e che ci sta esplodendo in mano: nella vita urbana non siamo attrezzati a custodire se non utopie ingenue.

 

La Chiesa custode del comune

Secondo Morra, l’appello a cui siamo chiamati come cristiani è il cambio di paradigma di una teologia non attrezzata a custodire il comune.

Pensando all’altro non dobbiamo pensare al migrante, a chi condivide con me il quotidiano, ma al “comune”, mentre non riusciamo neppure più a concepire che cos’è. Il comune è il vero altro che mi sta di fronte, la vera alterità che ora ci manca, perché il comune è un soggetto plurale di costruzione culturale.

Occorre uscire dell’individualismo dell’800, dall’empasse di una coscienza troppo individuale, che ha come ricaduta la solitudine della coscienza, l’impossibilità di dire “siamo tutti sulla stessa barca”. Solo a partire da un “noi” si può ragionare sull’economia e sulla politica.

Che cosa significa pensare una forma di Chiesa custode del comune “sparito”?

– In primo luogo, ripartire dai “senza rappresentanza” nel pubblico che hanno custodito un desiderio di comune: chi non ha rappresentanza nel pubblico è testimonianza vivente di bisogno di comune.

– Non proporre la contrapposizione soggettuale nel pubblico, ma piuttosto veri esperimenti e laboratori di comune, con la complessità propria di questo tempo.
Porre la Chiesa come uno dei soggetti sociali che contratta spazi è veramente una scelta suicida per il Vangelo e per le società. Significa il controllo della nostra simbolica, che dovrebbe essere la difesa di certi valori che diventano contrattuali nel pubblico. Dovremmo non fare più iniziative da soli, senza soggetti extra ecclesiali.

– Riconoscere come un kairos le forme in cui il comune si preannuncia, con un discernimento acuto e sapiente.

– Farsi laboratorio di pratiche del comune (sinodalità, ma non solo…).

 

Perché ripartire di qui?

– Perché abbiamo ridotto le categorie cristiane mistero, dono e responsabilità in categorie individuali, ma sono per la maggioranza relazionali: non c’è un padre senza un figlio.

– Perché l’incarnazione è paradigma regolativo, il modo in cui Dio si è regolato con l’umanità.

– Perché il metodo che ci serve è la negoziazione delle pratiche particolari, non la teorizzazione universale, quel che chiamiamo i valori e che diventa strumento di lacerazione.

Siamo dentro una casa ancora bellina, ricorda Morra, ma il mondo è fuori. Paradossalmente è successo qualcosa che ci ha cambiato, è il mondo che guarda noi, mentre la Chiesa non è abituata a essere guardata da fuori.

Proponendo la poesia di Chandra Livia Candiani, La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, la teologa conclude che dovremmo ritrovare un abbraccio che non possiede e che ci consente di svanire nello spazio di carità.

Von Balthasar commenta la fine del libro degli Atti degli apostoli con il naufragio della nave di Paolo, come chiusura del tempo della Chiesa. Prima è stato gettato quel che era inutile (e noi potremmo pensare a quanto ha fatto il Vaticano II), poi è stato gettato il carico (è il post concilio, in cui abbiamo dovuto mettere in discussione il motivo del viaggio). Ultimo passaggio di purificazione dovrà essere il gettare a mare l’attrezzatura. Paolo viene avvertito in sogno: «Non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, ma solo della nave». La nave è sfasciata dalle onde, le persone si buttano e si salvano.

Questo è l’appello, estremamente radicale, a cui siamo chiamati: abbiamo bisogno di gettarci in mare e diventare spalle che sanno nuotare, per aiutare altri che non sanno farlo.

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