Si arricchisce di dettagli ogni giorno sempre più sorprendenti la vicenda giudiziaria legata alle finanze vaticane che con fatica papa Francesco ha tentato di riordinare. L’ultimo in ordine di tempo è la notizia del 10 novembre rivelata dal diretto interessato ad alcuni giornalisti: Libero Milone, nominato revisore generale dei conti vaticani nel 2015 (e amministratore delegato di Deloitte Italia) e poi estromesso assieme al suo vice Ferruccio Panicco nel 2017.
Chi li accompagnò alla porta fu l’allora sostituto agli affari generali, mons. Becciu, il quale disse al consulente che non godeva più della fiducia del papa, per il fatto che avrebbe segretamente messo sotto sorveglianza molti alti prelati vaticani, tra cui Becciu stesso.
Oggi Milone chiede al tribunale Vaticano 10 milioni di euro di risarcimento e chiama in causa il card. Pietro Parolin e l’attuale revisore generale Alessandro Cassinis Righini: quest’ultimo avrebbe assistito senza colpo ferire al drammatico faccia a faccia nel quale l’allora capo della gendarmeria vaticana Domenico Giani, assieme al prelato, minacciavano Milone e Panicco di venire incarcerati se non si fossero dimessi e se non avessero mantenuto il silenzio.
Anticipiamo qui a questo proposito un brano dell’articolo a firma di Fausto Gasparroni che apparirà sul prossimo numero20 de Il Regno – Attualità, attualmente in stampa, sul processo vaticano di Sloane Avenue, in particolare sulla deposizione dell’attuale revisore generale Cassinis Righini. (MEG)
Un investimento da bocciare
«Venivano utilizzati strumenti d’investimento “non liquidi”, non quotati, di difficile visibilità e valutazione dall’esterno, fondi chiusi, una sorta di “hedge fund”, peraltro con persone in conflitto d’interessi. Non era quello il modo di usare i soldi dell’Obolo di San Pietro!». Sono le parole con cui il revisore generale dei conti vaticani, Alessandro Cassinis Righini, ha bocciato in aula l’investimento della Segreteria di stato nel palazzo di Sloane Avenue. Cassinis Righini, testimone dell’accusa, l’8 agosto 2019 fu il firmatario di una delle due denunce – l’altra era dello IOR – che diedero il via all’inchiesta e al successivo processo.
Ha ricordato il clima non propriamente favorevole incontrato in Segreteria di stato dall’estate 2018, quando papa Francesco lo aveva incaricato di una «revisione specifica» in quel dicastero per consegnare una «fotografia dell’esistente» al nuovo sostituto che doveva insediarsi il 15 ottobre, monsignor Peña Parra, successore del non ancora cardinale Becciu. Era preceduto, peraltro, dall’opposizione rivolta tra il 2015 e il 2016 a una revisione della Segreteria di stato affidata alla società internazionale Pricewaterhouse Cooper. «Noi siamo abituati a controllare, non a essere controllati», disse allora Becciu.
La contabilità incomprensibile
«Quando iniziammo la nostra attività – ha riferito –, si mostrarono immediatamente alcune cose molto strane, che poi sono diventate anche oggetto della nostra segnalazione. Mancavano perizie indipendenti sul valore degli immobili, relazione sui rapporti con le banche, bilanci: li chiedevamo ripetutamente e non ci venivano mai forniti».
Ha ribadito anche «l’atteggiamento passivo, di palese resistenza» opposto dall’Ufficio amministrativo a tutte le richieste di documenti, atti, bilanci. «Ci si lamentava, magari anche a ragione, di non avere sufficiente personale – ha ricordato –. Ma lì soprattutto era un problema di competenza. La contabilità era un disastro. Non si capiva assolutamente nulla».
La «revisione specifica» aveva anche portato alla luce che la disponibilità della Segreteria di stato era di 928 milioni di euro («ne erano al corrente i superiori, ma il papa sicuramente no») e, di questi, «750 milioni erano versati in istituti bancari fuori dal Vaticano, in particolare il Credit Suisse. Le risposte che ci venivano date era che storicamente, dagli anni Novanta, c’erano rapporti col rappresentante in Italia Enrico Crasso».
Le risposte evasive
Inoltre, sul fatto che gli strumenti d’investimento «concentravano il rischio e duplicavano i costi – con le doppie commissioni dei fondi chiusi – venivano date risposte evasive». «Si trattava di prodotti speculativi, senza una quotazione di mercato trasparente. Prodotti non facilmente negoziabili, non “liquidi” ma di particolare “viscosità”».
E sul fatto che allora non si seguivano particolari criteri etici negli investimenti – resi obbligatori solo nel giugno scorso – Cassinis ha rievocato che «anche l’APSA aveva investimenti contrari alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare in case produttrici di anticoncezionali e della pillola del giorno dopo. Allora lo facemmo presente e subito hanno provveduto a vendere».
Ultimo aspetto, il fatto che fin dal 26 novembre 2018 il revisore aveva segnalato che nel contratto per passare dal fondo di Mincione a quello di Gianluigi Torzi, quest’ultimo manteneva 1.000 azioni con diritto di voto, a discapito della Segreteria di stato, con tutte le conseguenze, persino rocambolesche, che ne derivarono. «Allora suggerimmo di non dare esecuzione all’accordo, che invece fu chiuso il 3 dicembre – ha concluso Cassinis –. Ma perché tutta quella fretta?».

Fausto Gasparroni
Giornalista