Perché riflettere sul dialogo? La risposta a questa domanda nasce dalla costatazione delle tensioni e dei conflitti presenti nel «villaggio globale», spesso non assenti neanche nelle comunità cristiane. Se «dialogo» vuol dire «incontrarsi mediante la parola» («dia-logos»), dialogare è necessario per camminare insieme, per vivere, cioè, quello stile di «sinodalità» («sinodo» significa «cammino fatto insieme»), cui papa Francesco sta chiamando la Chiesa di fronte alle sfide e alle promesse dei nostri tempi. La proposta di un decalogo fatta dall’arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto, Bruno Forte, sulle pagine de Il Regno-Attualità
Perché riflettere sul dialogo? La risposta a questa domanda nasce dalla costatazione delle tensioni e dei conflitti presenti nel «villaggio globale», spesso non assenti neanche nelle comunità cristiane. Se «dialogo» vuol dire «incontrarsi mediante la parola» («dia-logos»), dialogare è necessario per camminare insieme, per vivere, cioè, quello stile di «sinodalità» («sinodo» significa «cammino fatto insieme»), cui papa Francesco sta chiamando la Chiesa di fronte alle sfide e alle promesse dei nostri tempi.
Imparando a dialogare sempre meglio e sempre di più, ascoltandosi, accompagnandosi gli uni con gli altri, discernendo i segni del Signore e aiutando ciascuno a corrispondervi per integrarsi nel posto in cui Dio lo vuole, si cresce insieme come popolo sinodale, Chiesa comunione, icona della Trinità, partecipe della vita divina. Perciò è importante riflettere e verificarsi sulla nostra capacità di dialogare con tutti, partendo dal dialogo con Dio nella preghiera.
Il bisogno diffuso di dialogo
Il conflitto al cuore dell’Europa, generato dall’aggressione della Russia di Putin all’Ucraina, sta coinvolgendo sempre più l’intero «villaggio globale», mostrando con evidenza quanto ci sia bisogno oggi di dialogo: dalla crisi non si uscirà se non insieme.
Dialogare, però, non è facile: può farlo veramente solo chi crede in un interesse superiore alle parti, nel bene comune da amare e servire più del proprio o di quello di gruppo. Riflettere sulle condizioni che rendono possibile e autentico il dialogo non è allora un esercizio astratto, risulta anzi tanto importante, quanto urgente.
Il dialogo comporta sempre una sorta di uscita da sé, dalle ristrettezze del proprio punto di vista, per arrivare alla condivisione e all’incontro con l’altro: a tutti i livelli, il dialogo è il linguaggio della vita vissuta come dono e come impegno, e perciò il luogo dove propriamente può realizzarsi la ricerca del bene comune. Dove non c’è impegno generoso per gli altri non potrà esserci dialogo; e, analogamente, dove non c’è ascolto reciproco e dialogo è dubbio che possa esserci attenzione adeguata al bene di tutti e al superamento dei conflitti.
Si potrebbe rischiare l’affermazione che la capacità di dialogo è la misura dell’autenticità della vita, della ricchezza di umanità di ciascuno e della credibilità delle proposte fatte per il bene comune. Perciò, nulla si oppone di più alla natura del dialogo che la strategia o il tatticismo: dove il dialogo è strumento per dominare l’altro o per usarlo ai propri fini, lì cessa di esistere. Il dialogo ha la dignità del fine e non del mezzo: esso esige la gratuità dell’intenzione e si propone come una possibilità feconda d’incontro che nasce dalla volontà di servire la causa del bene di tutti.
Dialogo e reciprocità delle coscienze
Proprio per questo il dialogo non nasce e non si sviluppa lì dove la dignità e la consistenza dell’altro non siano rispettati. Il monologo, che ignora le esigenze e gli apporti altrui, vanifica l’incontro, rendendolo puramente accidentale: il dialogo, al contrario, vive della «reciprocità delle coscienze» (Maurice Nédoncelle), dello scambio fecondo in cui il dare e il ricevere sono misurati dalla gratuità e dall’accoglienza di ciascuno dei due.
La massificazione anonima esclude ogni possibilità d’esistenza dialogica: il riconoscimento dell’alterità come dono da accogliere, e non come rischio da cui difendersi, è essenziale al dialogo. E questo vale nel rapporto interpersonale come in quello fra gruppi (si pensi, ad esempio, alla presenza degli immigrati fra noi), popoli e nazioni. Iniziativa e accoglienza esigono, tuttavia, di non restare chiuse nel cerchio del faccia a faccia, perché il dialogo sia vero e fecondo: la libertà da ogni forma di cattura è necessaria alla possibilità e all’effettiva realizzazione di uno scambio dialogico.
Dove si creassero strumentalizzazioni o chiusure settarie il dialogo verrebbe a mancare: esso è autentico non solo quando nasce nel clima della libertà, ma quando si presenta come esperienza costantemente aperta agli altri, inclusiva e mai esclusiva dei bisogni e delle inquietudini di tutti. L’«incontro nella parola» – in cui consiste letteralmente il dialogo («dia-logos») – deve rendere possibili altri incontri: esso proietta gli interlocutori fuori del cerchio dei due, verso il vasto mondo della solidarietà e della giustizia per tutti.
Il pensiero ebraico e l’esistenza dialogica
È merito di diversi pensatori ebrei del nostro tempo aver contribuito a una rinnovata comprensione dell’essere umano a partire dalla sua costitutiva predisposizione al dialogo: la linfa viva dell’albero d’Israele, ben radicato nella terra, è così venuta a scorrere nella riflessione contemporanea sull’uomo, aiutandola a superare le secche tanto della comprensione classica, che fa dell’essere umano un caso dell’universale, assorbito nell’ordinata armonia del cosmo, quanto della concezione dell’ideologia moderna, che – specialmente nella visione illuministica – risolve l’uomo nel trionfo assoluto della ragione, svuotato alla fine del duro, eppur necessario ceppo del mondo reale e delle concrete relazioni con gli altri.
I pensatori ebrei, che hanno fatto del dialogo un tema centrale della loro riflessione, sono consapevoli della portata dirompente del loro pensiero nei confronti delle concezioni dominanti in Occidente, tanto dell’ideologia di destra e di sinistra, quanto del pensiero esistenziale.
Così Martin Buber che, nel proporre il suo «principio dialogico» (Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 2014), non vede possibile alcuna vera comprensione o autentica realizzazione della persona umana, dove non sia recuperata la pienezza della relazione con gli altri, dove, cioè, non trionfi l’orizzonte del dialogo. Perché ci sia dialogo occorrono, però, apertura sincera di sé all’altro, disponibilità all’ascolto delle ragioni altrui, reciprocità dell’azione interiore degli interlocutori e convergenza nel voler obbedire alla verità, che superi gli interessi e le visuali parziali di entrambi.
Il valore della relazione interpersonale
Nello scritto-manifesto Io e Tu (Ich und Du, 1923), primo dei saggi raccolti ne Il principio dialogico, Martin Buber sostiene che in partenza occorre definire le «parole fondamentali», capaci d’esprimere la realtà così com’è, intendendole non come parole isolate, ma come coppie di termini: «Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu» (59). Soltanto nella relazione interpersonale la prigionia dell’io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, ma come incontro: all’inizio c’è la relazione.
La relazione interpersonale esprime la struttura originaria dell’essere, la profondità ontologica per la quale l’uomo non è solitudine, ma è apertura all’altro e viene a realizzare sé stesso nel riconoscimento e nell’accoglienza dell’alterità. L’altro, però, può restare nella sfera dell’esso o entrare in quella del tu, può incombere come minaccia o cosa estranea o risplendere come interlocutore nella sua esteriorità: perciò, la relazione più realizzante è quella che si stabilisce col Tu supremo, dove tutta la realtà è riscattata nell’incontro personale, vissuto nella sua dimensione più radicale e profonda.
Per l’ebreo Buber l’esperienza dialogica si ritrova in forma suprema nel dinamismo dell’alleanza con l’Eterno. Il limite di questa concezione, tuttavia, può riconoscersi nel rischio di idealizzare la relazione interpersonale a scapito della concreta durezza e consistenza dei rapporti con gli altri, con le cose e col mondo, come sono tanto spesso vissuti.
Il dialogo e la Chiesa
Un’alternativa possibile è offerta dal Vangelo riguardo alla Chiesa, che nasce dall’annuncio e dalla catechesi che un credente fa ad altri della sua fede pasquale attraverso il dialogo. Questo dialogo, da cui si sprigiona la vita in comunione, implica il duplice movimento «dall’alto» e «dal basso», in cui l’esperienza dialogica giunge al suo pieno compimento: il Dio, che ha messo le sue tende fra noi, incontra, sovverte e realizza al tempo stesso la domanda più vera del cuore umano.
L’iniziativa di Dio («dall’alto») si offre come la risposta piena ed autentica alla ricerca di unità che muove dall’uomo e dalla storia («dal basso»). La Chiesa è il mistero dell’incontro dell’esodo umano e dell’avvento divino, e lo è a partire da colui nel quale questo incontro si è originariamente e sommamente realizzato: il verbo incarnato, Gesù il Cristo.
In quanto frutto dell’iniziativa divina, ma composta da uomini liberi, la comunione ecclesiale è dono che attende risposta, offerta di grazia che domanda accoglienza, discesa che suscita ascesa, se ricevuta per mezzo di Cristo Signore nell’assenso della libertà: perciò di essa si può fare veramente esperienza solo nella gratuità del dialogo, in cui il dono dall’alto è proposto, offerto e liberamente accolto. Di questo dialogo la preghiera, personale e liturgica, è al tempo stesso culmine, fonte e modello.
Dialogo e obbedienza alla verità
È qui che si coglie come dialogo e ricerca della verità non solo non si oppongano, ma siano in certo modo l’uno la via e l’autenticità dell’altro: ciò che è ricevuto nell’ascolto docile della verità, esige d’essere gratuitamente offerto nel dialogo. L’onestà nell’obbedienza al giusto e al vero rende possibile e autentico il dialogo.
Dialogo non è irenismo o cedimento alla dittatura del più forte: chi dialoga deve servire la verità e impegnarsi per la giusta causa, anche a costo di rischiare il fallimento della convergenza cercata.
D’altra parte, dialogando così si sprigionano le energie nascoste del bene, e le potenzialità di ciascuno, lungi dal chiudersi in sé stesse, si proiettano fuori di sé, facendosi servizio e dono. Quest’apertura all’esterno non solo non mortifica la comunione di coloro che dialogano, ma la rende vera e liberante: da un dialogo non soggiogato a poteri forti, si esce migliori, ciascuno più credibile, tutti più incisivi.
Qui si comprende anche come la fatica, che a volte il dialogo richiede, può essere tanto più sostenuta e condurre a un’esistenza veramente dialogica quanto più ci si accorge di essere stati interpellati per primi da un Altro che ci trascende tutti nel dialogo della vita. In questa luce si coglie lo specifico di chi s’impegna al servizio del bene comune sorretto da un’ispirazione di trascendenza di sé, di obbedienza a Dio e di servizio agli altri.
Amandoci, Dio ci chiama al dialogo
Afferma Agostino: «Non c’è invito più grande all’amore, che amare per primi» (De cathechizandis rudibus 4,7). Chi crede nella rivelazione del Dio che è Amore (cf. 1Gv 4,8.16), è chiamato da questa stessa fede a uno stile di vita plasmato dall’iniziativa di amore e di dialogo con gli altri, tale da anteporre il bene comune al proprio.
Senza dialogo al suo interno la Chiesa stessa non potrà proporsi come «icona della Trinità», riflesso nel tempo del dialogo eterno dei Tre, che sono Uno. Senza dialogo di sollecitudine e d’amicizia verso la comunità degli uomini essa non annuncerà quanto le è stato rivelato e donato. Senza dialogo e spirito di servizio l’ispirazione cristiana in ogni campo, e specialmente in politica, non risulterà credibile.
A sessant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II e dalle intuizioni profetiche di Giovanni XXIII, che indirizzavano verso un nuovo, reciproco dialogo fra il popolo di Dio e la famiglia umana (cf. il discorso inaugurale dell’assise conciliare, l’11 ottobre 1962), e a più di mezzo secolo dal magistero di Paolo VI, che al tema del dialogo dedicò una preziosa sezione della sua enciclica Ecclesiam suam (6.8.1964: cf. nn. 60-123), queste verità semplici e grandi non solo non hanno perso, hanno anzi guadagnato in attualità e urgenza per tutti.
Un decalogo per verificare la nostra attitudine al dialogo
Per vivere un autentico processo sinodale la Chiesa dovrà essere sempre più popolo in dialogo, in sé stessa e con gli altri. La via della sinodalità chiede a noi tutti di verificarci sulla capacità di dialogare nella verità. Invito a farlo esaminandoci su questo decalogo, che ho elaborato diversi anni fa e messo alla prova in tante occasioni per educarci al dialogo:
1. Non c’è dialogo senza umiltà: accettando di mettersi in ascolto dell’altro, rinunciando a ogni pretesa su di lui, s’apre la strada alla verità, cui tutti dobbiamo obbedienza.
2. Non c’è dialogo senza ascolto. Occorre far tacere i pregiudizi e le paure, essere aperti al nuovo, rispettosi dell’estraneità dell’altro, accogliendolo con fiducia come ospite interiore, desiderosi di vivere la comune appartenenza alla verità e all’amore che salva.
3. Non c’è dialogo senza stupore: stupirsi, vedere il mondo con altri occhi, sentirsi parte e non tutto, mettersi in gioco e rischiare, disorienta, ma libera da false resistenze e rende capaci d’accogliere il vero da qualunque parte provenga.
4. Non c’è dialogo senza una lingua comune. Per comprendere le parole dell’altro bisogna ascoltarne il cuore e rispettare la situazione vitale da cui esse provengono: solo così, il dialogo è «incontro nella parola» («dia-logos»).
5. Non c’è dialogo senza silenzio. Il silenzio è necessario sia per ascoltare e riflettere su quanto viene proposto dall’altro, sia per esprimere un’autentica prossimità, spesso veicolata dai gesti più che da molte parole. Non pronunceremo parole vere, se prima non avremo camminato a lungo sui sentieri del silenzio!
6. Non c’è dialogo senza libertà. Per aprirsi al dialogo e viverlo bisogna essere liberi da sé stessi, disposti a mettersi in discussione; liberi dagli altri, rifiutando i condizionamenti e le paure che a volte essi impongono; liberi per obbedire solo alla verità, che rende liberi (cf. Gv 8,32).
7. Non c’è dialogo senza perdono reciproco. Chi vuol dialogare, deve sgombrare la mente e il cuore da ogni risentimento o ferita di torti subiti: facendo memoria, il cuore va purificato con la richiesta e l’offerta del perdono.
8. Non c’è dialogo senza conoscenza reciproca. L’ignoranza dell’al-
tro, della sua cultura, del suo mondo vitale, è alla base di incomprensioni e chiusure: per dialogare occorre conoscere l’altro e farsi conoscere da lui.
9. Non c’è dialogo senza responsabilità. Chi dialoga non dovrà mai dimenticare la rete di relazioni umane da cui proviene e verso cui è responsabile: il dialogo non elimina, anzi accresce il senso di responsabilità che ciascuno deve avere nei confronti del bene di tutti.
10. Non c’è dialogo senza verità. Chi non ha passione per la verità, non saprà dialogare. Nel dialogo il cuore si apre a colui che è la verità, il Dio vivente, che viene ad abitare in chi – dialogando con lui – accoglie il suo amore.
Il dialogo richiede, dunque, umiltà, ascolto, capacità di stupirsi, comprensione, silenzio, libertà da sé, dagli altri e dalle cose, reciprocità nel perdonarsi e nel conoscersi, responsabilità nel volere il bene e obbedienza alla verità.
Come insegna l’Apocalisse, sulla linea di confine fra il tempo e l’eternità ci sarà un dialogo decisivo, che introdurrà nell’incontro dell’amore vittorioso e aprirà chi lo pratica ad accogliere il ritorno dell’Amato, perché possa per sempre dialogare con lui nell’infinita bellezza del cielo: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. Chi ascolta, ripeta: “Vieni!” (…) Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,17.20).

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto