Dopo aver pubblicato, sul n. 20 di Regno – Attualità (15 novembre 2022), alcune pagine finali e l’epilogo dell’autrice Francesca Perugi al volume Storia di una sconfitta. Carlo Maria Martini e la Chiesa in Europa (1986-1993), edito da Carocci (Roma 2022), volentieri torniamo su questo libro qui su Re-blog con un’ampia recensione della storica Maria Paiano. 

Vescovo e biblista

Il volume ricostruisce una vicenda recente nella storia del cattolicesimo contemporaneo: quella del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE) durante la presidenza di Carlo Maria Martini (1927-2012), dunque tra il 1986 e il 1993. Come è noto, Martini è stato arcivescovo di Milano (dal 1980 al 2002) ed era un biblista: prima di assumere la guida della diocesi ambrosiana aveva insegnato al Pontificio Istituto Biblico e nel 1978 era stato anche nominato rettore della Pontificia Università Gregoriana. Nel 2002, terminato il suo incarico episcopale, si trasferì a Gerusalemme per proseguire gli studi biblici. 

Opportunamente, l’autrice sottolinea nell’introduzione questo tratto nel suo profilo intellettuale, soffermandosi anche sull’equilibrio da lui trovato nel rapporto con la Bibbia, da studioso e da pastore: come studioso, dice Perugi, aveva un approccio critico al testo, mentre sul piano pastorale, persuaso del valore pedagogico della Bibbia, traeva occasione dagli episodi biblici non per estrapolare verità rigidamente definite, ma per porre domande sul presente.

 

Il primo CCEE

Il volume si concentra poi sulla storia del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa dalle origini alla fine della presidenza di Martini, evidenziando l’importante ruolo da esso svolto in questo arco cronologico (che si inscrive nei primi trent’anni circa del postconcilio) di luogo di riflessione e di discussione dei problemi comuni agli episcopali europei: soprattutto quelli dell’Europa occidentale, di fatto i più attivi e presenti al suo interno, anche se sin dall’inizio cercò di includere le Chiese cattoliche di tutta l’Europa, comprese quelle che, fino alla fine degli anni Ottanta, si trovavano nella sfera di influenza sovietica.

La ricostruzione operata da Francesca Perugi della storia di questo Consiglio è di grande importanza e interesse, per diverse ragioni. In primo luogo, è costruita sulla base di una documentazione d’archivio relativamente recente, considerando che si tratta di vicende di 30-35 anni fa e che normalmente gli archivi ecclesiastici sono resi accessibili agli storici dopo un periodo molto più lungo. 

 

Il modello di Chiesa 

Essa fa emergere inoltre con molta nettezza la profondità delle differenze tra, da una parte, il modello di Chiesa di Giovanni Paolo II e di settori della curia romana (e tra questi la Congregazione per la dottrina della fede guidata da Joseph Ratzinger) e, dall’altra, gli orientamenti del gruppo di vescovi dell’Europa occidentale che nel Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa faceva riferimento a Martini, denominato «gruppo di San Gallo» (dal luogo delle sue riunioni, che era anche quello della sede del Consiglio, a San Gallo, in Svizzera). 

Il primo capitolo ricostruisce con puntualità le diverse tappe del percorso che va dalla prima emergenza, verso la fine del Vaticano II, dell’idea della formazione di un organismo di «collaborazione strutturata» tra i vescovi europei, con ruolo solo consultivo – proposta dal segretario della Conferenza episcopale francese, Roger Etchegaray – alla sua istituzionalizzazione nel 1971, all’approvazione degli statuti nel 1977 e all’elezione di Martini alla sua presidenza nel 1986. 

 

Ecumenismo, evangelizzazione, collegialità

Evidenzia anche come il progetto iniziale fosse quello di mettere in rapporto tra loro i vescovi dell’Est e dell’Ovest europeo e di costituire un luogo di esercizio della collegialità (sia pure con funzione consultiva): un obiettivo la cui realizzazione rese nondimeno necessaria la creazione di un organismo parallelo costituito unicamente dagli episcopati della Comunità europea (COMECE), che curasse i rapporti con la futura Unione Europea (preclusi dai regimi comunisti alle Chiese presenti sul loro territorio). 

Tre appaiono i principali assi tematici delle discussioni e della riflessione del Consiglio dalla fine degli anni Settanta alla fine della presidenza di Martini, nel 1993: il dialogo ecumenico (attenzione nel cui ambito si colloca la collaborazione stabilita con la Conferenza delle Chiese cristiane europee non cattoliche); la declinazione del termine «evangelizzazione» nel contesto europeo; la collegialità episcopale. 

Il volume dedica un capitolo a ciascuno di questi temi e un capitolo finale all’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei vescovi svoltosi dal 28 novembre al 14 dicembre 1991. 

 

Tensioni con la Santa Sede

In tutti e tre i capitoli evidenzia le tensioni emerse tra la Santa Sede e il «gruppo di San Gallo» e nell’ultimo, in particolare, dimostra in modo incontrovertibile l’emarginazione di cui fu oggetto Martini nella preparazione e nello svolgimento del Sinodo per l’Europa, come pure nella riforma del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa. Mostra anche come questa riforma non solo sottopose il Consiglio a un più stretto controllo della Santa Sede, ma fu messa in atto con modalità che puntavano a impedire la rielezione di Martini alla presidenza. Cosa che di fatto avvenne.

Le differenze tra le prospettive romane e quelle della presidenza Martini del CCEE  emersero nel dibattito pubblico grazie agli attacchi della stampa conservatrice (in particolare quella più vicina a Comunione e liberazione) all’arcivescovo di Milano. Erano differenze che riguardavano il profilo della Chiesa sia nel suo assetto e nella sua vita più interna, sia nel suo rapporto con la società contemporanea e inevitabilmente, sul piano culturale, con la modernità.

 

Verità dottrinali e primato del Vangelo

Le divaricazioni sulle questioni interne alla Chiesa riguardano l’assetto istituzionale e lo spazio assegnato alla dimensione dottrinale e al Vangelo. Al riguardo si intravede un asse tra Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger, rafforzato dal 1991 con Angelo Sodano (segretario di stato) e Camillo Ruini (presidente della CEI), che rilanciò un modello di Chiesa gerarchico e verticistico, ribadì il primato dell’autorità del papa e difese una verità dottrinale concepita come sostanzialmente immobile. 

Su questo piano, l’area che faceva riferimento a Martini, pur non mettendo in discussione la struttura gerarchica della Chiesa e l’autorità del papa, poneva l’esigenza di un rafforzamento della dimensione collegiale e assegnava un primato al Vangelo (letto con gli strumenti della critica biblica) e alla dimensione interiore della fede.

Le posizioni divergenti relative al piano più interno si proiettavano nel rapporto con la società e la cultura moderna.

 

Principi non negoziabili

Come già evidenziato dalla storiografia (si vedano gli studi di Giovanni Miccoli e Daniele Menozzi su Giovanni Paolo II) la prospettiva pontificia era quella di una «nuova evangelizzazione» declinata come impegno missionario, volto ad affermare i principi cattolici come fondamento identitario delle comunità nazionali e dell’intera identità continentale (con il richiamo alle radici cristiane dell’Europa) e anche, attraverso l’impegno dei credenti, a inscriverli nelle legislazioni degli stati. 

Era un impegno promosso con determinazione soprattutto sul terreno dei cosiddetti «principi non negoziabili», in relazione ai quali non era riscontrata alcuna convergenza possibile con la cultura laica dei diritti umani. Buona parte di questi principi rientravano nella sfera della morale sessuale e familiare (come il diritto alla vita declinato come netto rifiuto di ogni pratica non solo abortiva ma anche anticoncezionale). 

Più in generale, la nuova evangelizzazione di Giovanni Paolo II sottendeva un giudizio sostanzialmente negativo sulla cultura laica e la società moderna, di cui nel suo discorso sottolineava sempre di più il soggettivismo, l’individualismo, il relativismo etico. 

 

I diritti umani, un grimaldello

Questi giudizi emersero soprattutto dopo il crollo del comunismo in Europa orientale, prima del quale (come la storiografia sul suo pontificato ha ampiamente dimostrato) il pontefice si era speso per il rispetto dei diritti umani, che in larga parte convergevano con quelli individuati dalla cultura laica, in particolare le libertà di tipo politico e sociale, e tra queste la libertà religiosa. 

Come sottolinea Perugi, l’insistenza su questi diritti aveva costituito una sorta di «grimaldello» per concorrere allo scardinamento dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Una  volta caduti questi ultimi, constatato che la libertà religiosa al loro interno non comportava necessariamente l’adesione delle loro popolazioni al modello di società cristiana da lui auspicato, e che le società democratiche occidentali procedevano verso l’accoglienza di diritti non riconoscibili dalla Chiesa, Giovanni Paolo II (supportato dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede) cominciò a sottolineare i limiti della democrazia, imputando a essa un relativismo etico ritenuto inaccettabile in un’ottica cattolica: un’ottica secondo la quale la verità non poteva che essere una, quella basata su principi individuati e definiti dalla gerarchia ecclesiastica, o da questa riconosciuti come conformi alla propria dottrina. 

 

Cattolici in politica

Queste posizioni si tradussero in un atteggiamento di sostanziale contrapposizione rispetto alla cultura contemporanea e nel tentativo di affermare le posizioni cattoliche anche sul piano politico, attraverso la mobilitazione dei credenti nelle diverse società nazionali. Sul terreno del rapporto con le altre confessioni religiose, esse portarono a declinare il «dialogo ecumenico» sostanzialmente come missione volta – con un atteggiamento formalmente fraterno e dialogico – a convertire non solo i non credenti, ma anche i fedeli di altri confessioni religiose cristiane. 

Fu quanto accadde nei paesi dell’Est europeo, nel rapporto tra cattolici romani e ortodossi: opportunamente Perugi si sofferma sulle ripercussioni di questa strategia politico-pastorale sui rapporti tra le Chiese in Ucraina (dove insorsero forti tensioni sull’occupazione dei luoghi sacri tra la Chiesa ortodossa e quella uniate). 

La nuova evangelizzazione era dunque declinata da Giovanni Paolo II come contrapposizione ad alcuni aspetti importanti della cultura politica delle società moderne (la cultura dei diritti e la democrazia), come presenza anche politica dei cattolici in quanto tali e come proselitismo nei contesti in cui la Chiesa era minoranza ma si era stabilito un regime di libertà religiosa: come i paesi dell’Europa orientale che proprio negli stessi anni attraversavano cambiamenti profondi sull’onda del rinnovamento ai vertici dell’URSS inaugurato da Gorbaciov e della caduta del muro di Berlino. 

 

Il «gruppo di San Gallo» e la cultura moderna

Profondamente diverse erano le posizioni del «gruppo di san Gallo», alla cui assegnazione di un primato al Vangelo rispetto a una verità identificata con norme e principi codificati, corrispondeva un atteggiamento dialogico con la società e la cultura moderna, che partiva da un giudizio non negativo su quest’ultima. In un’intervista rilasciata per Il Sole 24 ore a Giancarlo Zizola del 14 dicembre 1991 (durante lo svolgimento del Sinodo per l’Europa, a conclusione del quale fu avviato il percorso che portò alla sua destituzione dalla presidenza del CCEE) Martini giunse anche ad affermare che il pensiero di Karl Marx aveva sollecitato, come sintetizza Perugi, «una maggiore attenzione ai poveri e ai problemi sociali» e inoltre che «il marxismo aveva istanze ideali di giustizia, di solidarietà, di riordinamento del sistema economico a servizio dell’uomo» (157).

Uno degli aspetti di maggiore interesse della ricostruzione è costituito dalla chiarezza con la quale emerge l’asse che si viene a creare, nel contesto dello sfaldarsi dei regimi comunisti, tra la Santa Sede e la Chiesa cattolica dell’Europa centro-orientale: una Chiesa cattolica, quest’ultima, che, come sottolinea l’autrice, non aveva recepito il Vaticano II e non si era confrontata con i problemi teologici e pastorali con i quali si andavano misurando le Chiese dell’Occidente europeo e le cui strutture ecclesiali non si erano rinnovate. 

 

Chiese orientali e tradizionalismo cattolico

Nel volume si fa anche riferimento al giudizio di Martini sulla Chiesa ortodossa russa, il cui profilo si avvicinava a quello della Chiesa cattolica dell’Europa centro-orientale (soprattutto quella uniate): per il cardinale, era una Chiesa che nel corso dell’ultimo secolo non aveva subito trasformazioni, processi di adattamento. 

Dunque si collocava sicuramente in continuità con quella tradizione che negli stessi anni settori della curia romana (e tra questi in particolare la Congregazione guidata da Ratzinger) erano impegnati a recuperare (con l’assenso di Giovanni Paolo II), reintegrando gli ex-lefebvriani che, dopo lo scisma del superiore della Fraternità sacerdotale san Pio X, avevano chiesto di tornare alla comunione con Roma, secondo quanto previsto dal motu proprio Ecclesia Dei adflicta del 2 luglio 1988. 

In effetti, le vicende ricostruite dal volume vanno collocate in questo più ampio contesto, di cui confermano e consentono di precisare le dinamiche di fondo.

Maria Paiano

Storica

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