Il 12 aprile 2023, all’età di 87 anni, è morto a Parigi Jacques Gaillot. Vescovo di Evreux dal 1982, con atto del tutto inusuale la Santa Sede lo sollevò il 13 dicembre 1995 dal governo della propria diocesi trasferendolo alla sede titolare di Partenia (Algeria) e suscitando, all’epoca, forti reazioni nella Chiesa e nell’opinione pubblica francese. Così sintetizzavamo la vicenda per l’edizione 1996 dell’annale Chiesa in Italia (a p. 11): «Protagonista di un “caso” dopo l’altro fin dalla sua nomina (1982), Gaillot aveva sempre più caratterizzato il suo ministero per le prese di posizione audaci e senza reticenze sui temi di morale sociale e sessuale di più stretta attualità e più generalmente per una tensione a collocarsi quanto meno possibile “di fronte”, e quanto più possibile “dentro” alla modernità».
Fuori dal coro
Ne conseguiva «un progressivo e irrimediabile “canto fuori dal coro” (la definizione è del papa Giovanni Paolo II) rispetto ai confratelli vescovi francesi oltre che rispetto a Roma e un’amplificazione sempre maggiore di questo canto da parte dei mass media, al punto da condurre già nel corso del 1994 il presidente dei vescovi francesi, mons. Duval, a un richiamo molto fermo. La svolta ora impressa alla vicenda direttamente dalla Santa Sede (dopo che il 12, a Roma, Gaillot aveva rifiutato al card. B. Gantin e a mons. J.-L. Tauran le proprie dimissioni), suscita in Francia reazioni negative, pure all’interno della conferenza episcopale, fino a culminare in un incontro dei suoi vertici col papa, ma suscita anche l’impressione che l’ex-vescovo di Evreux sia finito prigioniero dei media che ha tanto coraggiosamente utilizzato». Anche se, da «vescovo di Partenia», ha continuato a esercitare un suo ministero.
Nel 1990, quindi cinque anni prima di essere rimosso, mons. Gaillot scrisse, in esclusiva per Il Regno, un articolo nel quale rendeva ragione del suo modo di «fare il vescovo». È pubblicato sul n. 22 (15 dicembre 1990), alle pp. 665-668; ne riportiamo qui alcuni passaggi salienti: a distanza di più di trent’anni non hanno certo perso d’attualità (G. Mc.).
L’uso dei «formidabili» media
Credo innanzitutto necessario dire la verità. Può sembrare banale ma non è così semplice come pare. Bisogna dirla in tutte le circostanze della vita. Bisogna dire ciò che si pensa e non nascondersi dietro principi o dottrine preesistenti. Bisogna dirla con chiarezza, con un linguaggio semplice e diretto e non ricorrere a formule astratte e tentennanti, di cui ha abusato tanto la nostra Chiesa. La gente non legge le dichiarazioni ufficiali della Chiesa e la maggior parte delle questioni vere resta senza risposta. Bisogna parlare senza avere la pretesa di possedere la verità e di volerla imporre. Ogni parola non è che un elemento del dibattito instaurato nella società e nella Chiesa.
Credo sia necessario fare uso il più possibile del formidabile mezzo di espressione che sono i mass media, specialmente la radio e la televisione. È per mezzo di essi che si possono raggiungere tutti gli uomini e tutti i giorni. Bisogna amare i mass media e non accusarli e ancor meno condannarli ritenendoli responsabili di tutti i nostri mali (…) Da parte mia, ho sempre risposto alle loro domande, persino in certe trasmissioni, che mi hanno spesso rimproverato di frequentare (…)
Il compito del vescovo
All’interno della Chiesa, un certo numero di miei confratelli mi rimprovera queste prese di posizione (…) Bisognerebbe parlare tutti insieme e dire le stesse cose. Effettivamente, viviamo in un periodo in cui la Chiesa in Francia non dice gran che. In ogni caso, niente di vitale per gli uomini d’oggi. Ma bisogna state per sempre dalla parte di questo silenzio? Mi si può rimproverare pure, andando al di là dei confini della mia diocesi, di occuparmi di ciò che non mi riguarda affatto. Ho sempre pensato che i vescovi, riuniti in Vaticano, avevano affermato con chiarezza che la missione di un vescovo locale ha una portata universale e che tutti i vescovi devono farsi carico di tutta la Chiesa (…)
Penso infine che faccia parte della missione di un vescovo dare sempre la priorità alle questioni scottanti, cioè le preoccupazioni e le angosce degli uomini. Le ferite dell’umanità, i luoghi in cui gli uomini soffrono la guerra, l’ingiustizia o la povertà devono avere sempre la priorità sulle questioni riguardanti il funzionamento della Chiesa (…) Credo pertanto che un tale atteggiamento sia più vicino a quello di Cristo e alla missione che ha affidato alla sua Chiesa.
La Chiesa e la secolarizzazione
[Dal concilio Vaticano II] viene fatta propria una dichiarazione importante: la Chiesa riconosce l’autonomia del mondo, delle società civili in rapporto a essa. È un altro segno della fine della cristianità. È la fine delle pretese della Chiesa. Le realtà umane non sono più confuse con quelle della fede o della Chiesa. Essa prende atto delle rivoluzioni che hanno fatto nascere il mondo moderno sul piano politico, sociale, culturale. Ciò comporta per la Chiesa che accetti una vera secolarizzazione, cioè che riconosca con franchezza e concretamente l’autonomia del mondo, delle società civili (…)
Di fatto, in molti campi, la Chiesa deve accattare di entrare in un dibattito con la società moderna per una reciproca fecondazione. Rinunciando a saper tutto su tutto, la Chiesa accoglie le ricerche degli uomini, il loro pensiero, come contributo alla propria ricerca. Può così stabilirsi una sorta di collaborazione per trovare la strada dell’umanità che si affaccia al mondo. Dicendosi serva e povera, la Chiesa si mette a servizio dell’umanità (…) Dovrebbe giocare costantemente un ruolo profetico, farsi voce degli uomini diseredati e meno considerati (…)
Non la morale, ma l’etica
La Chiesa non può e non deve restare al di fuori del dibattito etico, né al di sopra. Deve rinunciare a ogni pretesa di controllarlo, concluderlo e soprattutto condannarlo. Si tratta per essa di entrare in un negoziato sincero, in scambi che consentano un lavoro di elaborazione a beneficio dell’umanità, a servizio degli uomini di ogni società. Ciò esige l’accettazione di una maniera democratica di collaborazione, quella che caratterizza la maggior parte delle società moderne. La Chiesa non è ancora abituata a tale comportamento nella sua pratica. Ciò suppone l’accettazione del pluralismo delle opinioni, la pratica della tolleranza, il riconoscimento della diversità.
Siamo così chiamati a rinunciare al nostro gusto dell’uniformità e ad abbandonare ogni pratica di esclusione. Siamo al contrario invitati a entrare nello spazio di libertà dove le differenze sono accolte da tutti. Da qui, sono certo, possono nascere non discussioni interminabili e sterili, ma la costruzione, la creazione di utopie concrete, di cui l’uomo ha bisogno per vivere, sperare e darsi delle regole di vita.
