Quattro giorni di visita del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin in Sud Sudan (dal 14 al 17 agosto), come delegato pontificio per incoraggiare il processo di pace, mostrano l’interesse e l’affetto della Chiesa universale per un paese di cui si parla poco e che vive ancora imbrigliato in scontri tribali. Ne è convinta suor Elena Balatti, comboniana, direttrice di Caritas Malakal. Il suo auspicio è che i giovani sud-sudanesi si affranchino dal reclutamento nelle bande armate e partecipino con coscienza civica piena alla guida della nazione. Ma perché ciò avvenga, c’è bisogno di giustizia.
La visita di Parolin come una campanella che risuona
«Lo sforzo del Vaticano a mio parere porta dei frutti»: lo afferma la religiosa in missione in una delle regioni attualmente più sotto pressione per crisi stratificate: ambientali, politiche, umanitarie. Ebbe modo di rendersene conto già prima che arrivasse il papa, nel febbraio scorso: in alcune aree del paese, osserva, c’era allora il rischio tangibile di un rinnovo del conflitto, ma non si è verificato. Confida nella diplomazia ecclesiale che anche stavolta, con la visita del card. Parolin il quale è tornato dopo un anno, viene percepita come una campanella che risuona puntualmente per muovere a un impegno corale, fattivo, costruttivo per la pace.
Guardare oltre il tribalismo in una prospettiva nazionale
La riconciliazione qui stenta a radicarsi; il paese rimane infatti «diviso su linee etniche politicizzate».
La gente «sa che gli accordi possono anche non essere rispettati, purtroppo», lamenta suor Elena alludendo a un disfattismo serpeggiante. «Ci vuole un coinvolgimento di molti gruppi e forze sociali. La Chiesa ha la sua parte. Bisogna coinvolgere i giovani perché sono loro la forza combattente. Ci vuole il concorso della maggior parte della popolazione nel fare scelte di pace e nel non lasciarsi deviare da interessi di parte e di pochi». È soprattutto questa tentazione, di fatto, a minare il percorso di preparazione alle elezioni che dovrebbero tenersi nel 2024, tema già discusso durante il viaggio di papa Francesco e che in questi giorni è riemerso nei colloqui tra il segretario di Stato e il presidente Salva Kiir. «La classe politica ha promesso che ci saranno elezioni libere e senza violenza. Io prego che effettivamente ciò avvenga perché aiuteranno la popolazione a sentirsi più responsabile del destino del paese. Sarebbero le prime in questo senso e aiuterebbero a far maturare una maggiore coscienza civica», sostiene la religiosa, che spera in una chiamata al voto espresso «nel rispetto reciproco delle diverse idee e opzioni» e che riesca a guardare oltre il tribalismo, in una prospettiva davvero nazionale.
L’oro insanguinato
La violenza interna è figlia e, allo stesso tempo, volano di una strategia violenta e corrotta che va al di là dei confini geografici. Suor Balatti lo ricorda quando accenna a un dato noto, sebbene difficilissimo da dichiarare da parte dei responsabili: «L’Africa paga con le proprie materie prime le armi: il petrolio in alcuni casi per la guerra nel vicino Sudan», per esempio. E aggiunge che «ci sono dei sospetti fondati che le armi vendute dal gruppo Wagner a gruppi in Sudan siano state pagate in oro», del quale paese è il terzo produttore nel continente. Così le reti di interessi transnazionali a danno del benessere delle popolazioni si infittiscono per l’aumento degli attori coinvolti, col rischio di spaccare un tessuto sociale ed economico fragilissimo. L’Alto Nilo è a tutt’oggi la regione che più ne fa le spese, per storici conflitti, per le conseguenze del cambiamento climatico e per le decine di migliaia di persone che stanno arrivando proprio dal Sudan.
Sulla barca con gli sfollati
La gestione è difficilissima e necessita di grandi capacità logistiche. La diocesi di Malakal, centro portuale sull’immenso fiume, che prova a risollevarsi da una completa distruzione, se ne fa carico per una parte mettendo a disposizione una barca da 80 tonnellate, ottenuta grazie a Caritas Germania e Misereor. Da mezzo di trasporto di vari materiali è diventata l’àncora di salvezza per circa 2.500 sfollati, in maggioranza sud-sudanesi che rivivono al contrario l’esodo forzato verso il Sudan e devono ricominciare daccapo. Su quella barca, icona biblica dell’affidarsi, è salito lo stesso cardinale Parolin. Su quella barca ha condiviso un tratto di viaggio con i migranti. Ha condiviso l’unica, forse, opzione di vita per loro.
La nazione più giovane del mondo
deve scommettere sui giovani
Come andare al di là della sopravvivenza? C’è una chance che sempre la diocesi di Malakal sta mettendo in campo: ricostruire la scuola tecnica, bruciata durante la guerra del 2013-18, per dare un futuro dignitoso ai giovani meno abbienti che non hanno potuto frequentare regolarmente la scuola. «Intende essere un centro di avviamento professionale. Mancano infatti elettricisti, meccanici, falegnami – conclude suor Elena –, con la guerra moltissimi se ne sono andati. La prima pietra è stata posta quest’anno e io spero che con il prossimo anno accademico possa essere aperta». Un modo per sottrarli al giro delle bande, e renderli produttivi. Racconta di uno di loro, un quindicenne, con cui una volta aveva parlato. Lui aveva voluto provare a stare dentro a uno di questi gruppi che compiono razzie armate per il bestiame. «Il fatto che il padre fosse un catechista lo ha indotto a decidere di uscirne. Molti giovani abbandonerebbero queste bande se si vedesse una maggiore giustizia nel Paese».

Antonella Palermo
Giornalista