«La nostra Conferenza episcopale (CEDES) ha avviato il processo di canonizzazione di un grande gruppo di nostri martiri del recente conflitto armato»: è la notizia che mons. José Luis Escobar Alas, arcivescovo di San Salvador e presidente della CEDES, ha reso pubblica domenica 6 agosto, durante la messa di chiusura delle celebrazioni in onore del Divino Salvatore. 

Il riferimento è al tempo della guerra civile che ha flagellato El Salvador dal 1979 al 1992 e che ha visto scontrarsi tra loro la giunta militare e la guerriglia del Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (FMLN). «La storia deve conoscere una inversione a partire dai poveri e dagli oppressi, perché essi sono le uniche e vere vittime della storia. Sono coloro che vengono ignorati, resi invisibili, emarginati, esclusi dalla società, e tuttavia quelli che rappresentano Cristo», ha sottolineato il presule. 

 

Ellacuría e Sobrino

Pur senza indicare le persone prese in esame dal processo, nel suo annuncio egli ha voluto citare «in modo speciale» p. Ignacio Ellacuría, il gesuita spagnolo dell’Università centroamericana «José Simeón Cañas» (UCA) assassinato dall’esercito assieme ad altri cinque confratelli e a due donne il 16 novembre 1989.

Unico teologo sopravvissuto alla strage dell’UCA fu p. Jon Sobrino, in quel momento in Thailandia per tenere un corso di cristologia. La sua toccante testimonianza, che a partire dall’eccidio pone domande sulla Chiesa dei poveri, sulla teologia della liberazione, sull’azione di carità, sulla libertà, i diritti umani e la giustizia, costituisce ancor oggi uno dei più lunghi «studi del mese» mai pubblicati da Il Regno (sul n. 2 del 1990, alle pp. 53-72). È intitolato «L’assassinio-martirio dei gesuiti del Salvador». Eccone alcuni brevissimi stralci.

 

«Che ci dicono questi martiri?»

«Che ci dicono questi martiri sulla Chiesa e sulla teologia? Le riflessioni proposte sono state dedotte direttamente dall’assassinio dei sei gesuiti. Ne sorgono altre, non legate direttamente al delitto quanto al suo significato e alle sue conseguenze. Ora mi rapporterò a due argomenti e dirò due parole sulla Chiesa dei poveri e, poiché alcuni gesuiti erano teologi, sulla teologia della liberazione. Oggi i due temi sono motivo di polemica; non intendo, però, abbordarli con questo spirito. Questo non è momento di polemica né di autodifesa, ma di sincerità di fronte a Dio e a noi stessi. Davanti ai loro cadaveri ho la pretesa di aiutare a riflettere sul perenne e fondamentale problema, trattato dal Vaticano II e da Medellín, cioè su che cosa è la Chiesa di Gesù; su come devono essere, oggi, i discepoli d Gesù, i membri del suo corpo nella storia. A qualcuno sembrerà una digressione rispetto a quanto detto. Per me non lo è. Questo delitto illumina a giorno Chiesa e teologia».

 

Risorti nel popolo

«Che cosa resta, allora, del martirio di questi sei gesuiti? Spero e credo che risorgano, come mons. Romero, nel popolo salvadoregno, che permangano luce nel tunnel dell’oscurità, speranza in questo paese di sventure innumerevoli. Tutti i martiri risuscitano nella storia e tutti a loro modo. Il caso di mons. Romero è eccezionale e irripetibile, però anche Rutilio Grande è presente in molti campesinos; le religiose nordamericane continuano a vivere a Chalatenango e La Libertad; Octavio Orliz a El Despertar e le centinaia di campesinos martirizzati continuano a vivere nelle loro comunità. Anche i gesuiti martiri rimarranno presenti. Il p. Lolo vivrà, senza alcun dubbio, nelle scuole di Fe y Alegria e fra i poveri che per molti anni lo hanno amato».

 

Come risusciteranno

«Non so come risusciteranno i martiri dell’UCA. Mi piacerebbe che il popolo salvadoregno li ricordasse come testimoni della verità, affinché continui a credere che la verità è possibile nel paese; che li ricordasse come testimoni della giustizia – della giustizia strutturale o, con parole meno fredde, dell’amore per le classi popolari – affinché il popolo salvadoregno mantenga la convinzione che è possibile cambiare il paese. Mi piacerebbe che il popolo salvadoregno li ricordasse come testimoni fedeli del Dio della vita, perché possa continuare a vedere in Dio il suo difensore; che li ricordasse come gesuiti che tentarono la difficile strada della conversione e che pagarono il prezzo della difesa della fede e della giustizia. Ecco quanto spero che i sei gesuiti lascino in eredità al popolo salvadoregno e che rimangano vivi in questa eredità ispirando e incoraggiando». 

 

Testimoni della fede, uomini di giustizia

«Mi piacerebbe che la Chiesa e i credenti li ricordassero come i testimoni della fede di cui parla la Lettera agli ebrei e, soprattutto, come gli imitatori del testimone per antonomasia, Gesù. Di quel Gesù di cui la lettera citata riassume la vita affermando che è il misericordioso con i deboli e il fedele a Dio. Traducendo il linguaggio della Compagnia di Gesù, vorrei che fossero ricordati come uomini della giustizia – versione attuale di misericordia –, come persone credenti nel Dio della vita, anche in presenza della morte – versione attuale di fedeltà –. Spero che i miei fratelli restino vivi in questa eredità». 

Gabriella Zucchi

Giornalista

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